Maestri greci a Istanbul

Giovanni De Zorzi racconta il lavoro dell’Ensemble Bîrûn sul repertorio ottomano

di Alessio Surian – Il Giornale della musica

Quello dedicato ai compositori greci è un cd che fa parte di un progetto pluriennale che vede impegnate Nota e la Fondazione Cini di Venezia. Dal 2012, con la sapiente regia di Giovanni De Zorzi, la Fondazione ospita “seminari” condotti dal maestro Kudsi Erguner e dedicati ai repertori della musica ottomana. Tre i lavori precedenti dell’Ensemble Bîrûn: un primo cd introduttivo dedicato a chi componeva alla corte ottomana (2012) e due successivi lavori che hanno approfondito i repertori di compositori armeni (2013) ed ebrei sefarditi (2015). Il nuovo lavoroI compositori greci del maqâm ottomano, appena pubblicato da Nota nella serie diretta da Giovanni Giuriati “Intersezioni musicali”, vede undici musicisti da diversi paesi a fianco di Kudsi Erguner.

Se l’apertura di “Rehâvi peşrev (8/8)” fa subito apprezzare l’ampio spettro timbrico del gruppo, il successivo brano “Terirem nel IV modo plagale (Maqâm rast)” permette di apprezzare il ruolo importante della vocalità all’interno del repertorio. Sorprende l’ascoltatore il testo della terza composizione: qui troviamo un’alternanza di strofe in greco e in italiano. Si tratta di “Rast şarki (‘Italiano’)”, con un testo tratto dal manoscritto “Melpomeni” del 1818 che, nel frattempo, da Istanbul ha viaggiato fino al monte Athos ed è custodito nel monastero Vatopedi.

Ogni brano sarebbe degno di approfondimento sia musicale, sia storico: Giannis Koutis arricchisce il libretto che accompagna il disco con una ventina di pagine di informazioni sui compositori e sulle singole tracce. Lo accompagnano testi di De Zorzi e Giuriati di introduzione al progetto di Birûn Veneziano, di Kudsi Erguner sulla dimensione orizzontale nella musica modale e di introduzione al compositore Petraki il Peloponnesiaco (1735-1778), protagonista di queste registrazioni ed emblematico del contesto ottomano: autore per la chiesa armena gregoriana, cantore presso il Patriarcato greco ortodosso, suonatore di flauto ney nel centro sufi mevelevi di Galata. La sua arte magistrale può essere colta anche ascoltando lo sviluppo modale che propone per i singoli modi maqâm, come per lo sviluppo del Nihâvend in “Nihâvend Saz semâîsi”. Non meno riusciti sono i preludi in cui i singoli strumenti esprimono la propria voce, si tratti del kanun di Nurullah Ejder in “Nihâvend taksîm” o di “Uşşak taksîm”, che mette in luce lo ’ûd di Ayberk Coşkun. Ognuno dei ventitré brani arriva all’ascoltatore con la sua particolare luce, nell’alternarsi di dinamiche che Kudsi Erguner sa costruire magistralmente e punteggiare col proprio flauto ney.

A Giovanni De Zorzi abbiamo chiesto di raccontarci in modo più approfondito questo progetto musicale e di ricerca.

Ci racconti chi era Petros Lampadarios e come le sue opere sono diventate il “nocciolo” (per usare la definizione di Kudsi Erguner) di questo nuovo cd?

«Petros è un personaggio affascinante, geniale e poliedrico, come ci raccontano i suoi molti soprannomi: Petros è noto come Petros Peloponnesios, per la sua regione di appartenenza, il Peloponneso, e con questo nome è ricordato tra i massimi autori della musica sacra della tradizione bizantino ortodossa; viene poi detto Petros Lampadarios, perché era direttore del coro di destra (quello che sta vicino al lampadario) al Patriarcato ortodosso di Costantinopoli nel quartiere del Fener, carica molto prestigiosa. Però, a mitigare questa solennità, è anche noto con il suo diminutivo, Petraki. Più strano il titolo che gli davano di Hirsız Petros: hirsız in turco significa “ladro” quindi Hirsız Petros significherebbe Petros “il ladro”, non proprio un epiteto nobile; in realtà lui veniva detto “ladro” perché era capace di trascrivere al volo un brano di musica mentre veniva cantato o suonato, “rubandolo” così agli interpreti, un po’ come sapeva fare il giovane Mozart, lasciando di stucco le corti europee. Ma poi veniva chiamato anche Tiryâki, “intossicato, avvelenato”, tra i dervisci mevlevî (dervisci danzanti) del centro di Galata, che lo amavano e lo chiamavano hoca, “maestro”, e con i quali cantava e suonava il flauto ney».

«Insomma, Petros (1735?-1778) sembra riassumere in sé quella luminosa stagione della Costantinopoli settecentesca, attraversata da varie correnti culturali e musicali, dove tutti suonavano con tutti, senza problemi di etnie o di religioni: greci con ebrei con armeni con dervisci. Un clima di dialogo che ha sempre connotato la metropoli nella sua storia millenaria, clima piuttosto diverso da quello dell’Istanbul contemporanea. Come altri prima di lui, Petros non compose solo musiche per le cerimonie della liturgia ortodossa, ma anche musiche secolari secondo le forme e il linguaggio della musica d’arte del maqâm ottomano, confrontandosi anche con generi urbani leggeri come le canzoni dette şarkı. Ed è molto significativo che questi repertori siano stati trascritti in notazione bizantina e che siano stati conservati in diversi monasteri dell’ecumene bizantina: quelli di questo cd, in particolare, vengono da un monastero sul monte Athos e sono stati raccolti e trascritti in notazione occidentale da Giannis Koutis, cantante, suonatore di ‘ûd e giovane dai molti talenti, su incarico di Kudsi che sapeva dell’opera di Petros, e dei compositori greci che avevano operato nel mondo ottomano, sin dai tempi delle trascrizioni che ne faceva il padre Ulvi Erguner (1924-1974). D’altronde non è la prima volta che Kudsi si dedica a questo tema: va ricordato almeno di sfuggita l’antologico Fener’ den Saray’a. From Phanar to the Ottoman Court (Equinox 2008), ma questa è stata per lui l’occasione per poter concentrarsi sulle musiche di questo genio, sia di ambito sacro che secolare, grazie ai materiali inediti trovati da Giannis Koutis».

Petros Lampadarios suonava, come te il flauto ney: qual è il ruolo di questo strumento nei brani di questo cd e, più in generale, nella musica d’arte (maqâm) ottomana?

«Così si dice quando si parla della frequentazione di Petros del centro dei dervisci mevlevî di Galata, ed è un dettaglio importante quello che ci dà l’osservatore, perché, di fatto, il ney è uno strumento profondamente radicato nella tradizione sufi, piuttosto che nella musica di corte. E viceversa, se vediamo le miniature del settecento di Levnî che ritraggono la vita musicale a corte, notiamo che i suonatori di ney sono quasi sempre dei dervisci, riconoscibili per il loro alto copricapo conico (sikke). Venendo alla seconda domanda, nel cd ci sono tre suonatori di ney: il maestro planetario Kudsi Erguner, l’asino che ti parla e il giovane e bravissimo Ahmet Altınkaynak. Il ruolo funzionale del ney in un ensemble come quello di questo disco è quello di uno strumento a fiato che ha un colore, un timbro, molto particolari; che ha la possibilità di tenere note lunghe, come gli strumenti ad arco, e che in dimensione acustica “esce fuori” bene nell’amalgama del gruppo. Esteticamente è considerato come una voce; nei migliori casi una voce che sa dire cose che rientrano nella sfera del non dicibile, per le quali le parole non sono sufficienti. Quanto alla terza domanda: il flauto ney, insieme al liuto a manico lungo tanbûr, è lo strumento principe della musica d’arte, classica, ottomana. Questa sua particolarità tutta e solo ottomana è data dalle sue dimensioni, dalle sue taglie, dalla boccola başpare, mentre altrove nel Mediterraneo il ney/nay è tutt’altro. Lo stesso vale per il tanbûr. E tutti e due gli strumenti sono stati di riferimento per i musicologi. Ma, ripeto, il ney è inseparabile dall’estetica sufi, che non è esattamente l’estetica della corte o dei salotti. Per quelle sono più adatte arpe, liuti e cetre».

Con Birûn suonate musiche di tradizione orale, ma anche il rapporto con gli spartiti è importante: da quali manoscritti e notazioni siete partiti e in che misura gli spartiti fanno parte del lavoro del gruppo e dei singoli musicisti? Qual è il ruolo di Kudsi Erguner?

«Nel mondo ottomano sono esistite molte forme di notazione, spesso commissionate e ben pagate dal sultano a vari specialisti. La notazione occidentale arrivò da ultima, verso la fine dell’Ottocento (dopo le pionieristiche trascrizioni di Bobowski in notazione occidentale su pentagramma effettuate nella seconda metà del Seicento, che non ebbero alcuna circolazione). Nello stesso periodo, poco a poco, arrivarono anche i Conservatori di stampo europeo. Il processo avveniva nella scia dell’amore degli ottomani per le cose occidentali che portò all’epoca delle riforme detta tanzimat. Molti musicisti e musicologi si formarono così secondo il sistema occidentale, affiancandolo a quello tradizionale. Dagli anni Venti vi furono, quindi, molti musicologi di doppia formazione, tradizionale ed europea, che si misero a trascrivere il repertorio orale su pentagramma, aggiungendo dei segni per dei microtoni che in Europa non ci sono. In Turchia oggi ci si basa soprattutto su quelle trascrizioni».

«Noi, invece, per questo progetto, come dicevo, ci siamo basati su manoscritti in notazione bizantina. Ed è segno di una tendenza in corso in questi ultimissimi tempi: alcuni stanno finalmente lavorando anche sulle cose scritte nelle varie notazioni antiche, come quella armena di Hamparsum, quella bizantina, come in questo cd, quella eurocolta nei due esemplari del taccuino di Bobowski, quella di Cantemir, quella di Nâyi Osman Dede, quella di Kevserî… eccetera, eccetera. Un impegno che richiede molte conoscenze in campi diversi (musicologico, linguistico, codicologico) ma che è appassionante, soprattutto quando le musiche escono dalla carta e risuonano per la gioia degli ascoltatori».

«Il ruolo degli spartiti, in Bîrûn, è primario: il direttore artistico sceglie il tema del seminario e seleziona gli spartiti. Da una rosa piuttosto ampia (ogni volta Erguner spedisce 30/40 composizioni) si arriva durante la masterclass a un programma da registrare in studio e da suonare in concerto. In questo senso, la presenza degli spartiti è il tipico frutto dell’epoca moderna: per il singolo, lo spartito consente di prepararsi in anticipo; in gruppo, consente di lavorare in tempi brevi, come accade ovunque per le musiche di tutti i generi. In passato la musica nel mondo ottomano (e altrove) era un’attività con tempi rilassati, ci si trovava più volte alla settimana, si suonava condividendo un piacere, un gusto».

«Il ruolo di Kudsi Erguner è centrale, fondamentale: raduna un repertorio, lo seleziona in base alla resa dell’ensemble, fa da direttore, crea arrangiamenti brillanti, ingegnosi, capaci di alternare i singoli all’ensemble (tutti), con una varietà di stratagemmi. Come direttore chiede di suonare secondo un’estetica antica, antecedente al gusto novecentesco e accademico del Ministero della cultura turca, e quindi di interpretare i brani aggiungendo abbellimenti, facendo diminuzioni senza leggere pedissequamente… Il risultato è che la musica non suona mai noiosa, pesante, seriosa, come succede spesso, ma solenne o nostalgica o brillante o vivace o marziale, sempre piena di colori, e il pubblico risponde entusiasta, come hai sentito tu stesso; questo dell’interpretazione e dell’arrangiamento è un segreto tutto e solo suo, legato al talento, ai suoi maestri, alle sue idee e ai più di quarant’anni di carriera».

Vuoi presentarci i musicisti che suonano con Kudsi Erguner e con te nel cd e come avete lavorato insieme?

«Sono tutti giovani e davvero molto bravi, selezionati su molte candidature arrivate. Tralasciando Kudsi e me, in ordine alfabetico ci sono Ahmet Altınkaynak (1995) al flauto ney, che ha studiato con neyzen Ekrem Vural sino alla scomparsa del maestro, e che dal 2012 si è trasferito ad Istanbul, dove sta studiando presso il Conservatorio della İTÜ (İstanbul Teknik Üniversitesı). Poi c’è Emine Bostancı (1995), l’unica donna della banda, che suona la viella ad arco kemençe, strumento che ha studiato con i maggiori maestri del momento. Attualmente studia alla CODARTS University of Arts di Rotterdam, con Kudsi Erguner, ma ha già diverse esperienze artistiche. Michalis Cholevas (1977) è una presenza assidua a Bîrûn: è un polistrumentista, ma nell’ensemble suona la viella ad arco yayli tanbûr: vive in Olanda dove insegna alla CODARTS, suona con l’ensemble Lingua Franca, sta iniziando un PhD a Thessaloniki. Ayberk Coşkun (1993) è nato e vive a Berlino; suona il liuto ‘ûd, strumento che ha studiato con Nuri Karademirli. A Berlino ha fondato lo Institut für Makammusik. Nurullah Ejder (1995) suona la cetra su tavola pizzicata kanûn in vari ensemble, vive a Berlino e anche lui, come Ayberk, ha studiato con Nuri Karademirli. Safa Korkmaz (1987) è un caso di biculturalità: ha iniziato in Turchia a suonare il liuto ‘ûd sin da piccolo, si è diplomato in musica alla Cumhuriyet University ma poi nel 2008 è venuto in Italia, a Venezia, a studiare canto lirico ed è oggi molto richiesto come tenore operistico. Giannis Koutis (1985), canta e suona il liuto ‘ûd. Ha molti diplomi, un Master of Arts (MA) conseguito alla CODARTS, sotto la direzione di Kudsi Erguner, suona con Lingua Franca e ha una notevole attività concertistica, ma per questo cd ha svolto anche una preziosa opera di ricerca in alcuni monasteri bizantini della Grecia che lo ha portato a scoprire manoscritti inediti e a transnotarli in notazione occidentale e, quindi, è in gran parte merito suo se si possiamo ascoltarli e parlarne oggi. Reza Mirjalali (1989) è nato a Teheran e suona il liuto a manico lungo târ, strumento della tradizione persiana, che ha studiato sin da piccolo con il padre Shahram. Attualmente studia alla CODARTS di Rotterdam, sotto la guida di Kudsi Erguner, e sta individuando un affascinante tema per il suo master. Nikos Papageorgiou (1996), di Patrasso, ha studiato sin da piccolo liuto a manico corto lavta con Evgenios Voulgaris, e musica bizantina con il padre. Qui suona il liuto a manico lungo tanbûr, strumento che ha iniziato a studiare nel 2011 frequentando i seminari tenuti da Murat Aydemir al Labyrinth Musical Workshop di Creta. Ultimo ma non ultimo, Jacobus Thiele (1981), nato a Braunschweig, in Germania, specializzato in percussioni arabe con un Bachelor of Arts (BA) al CODARTS di Rotterdam, ma attivo anche in altri stili e generi percussionistici».

Quale sarà il tema del repertorio del prossimo Ensemble Bîrûn? Quando prevedete di tornare a registrare e a suonare dal vivo?

«Il tema del prossimo seminario è ancora in fase di discussione. Non vorrei darti una risposta che poi potrebbe cambiare. Sia come sia, se ci sarà una nuova masterclass nel 2018, come tutti speriamo, le registrazioni saranno il coronamento del lavoro in residence e del concerto, quindi, se tutto va bene, direi che si tornerà in studio agli inizi della primavera 2018».

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