Dall’Appennino al mare: un rovesciamento di prospettiva?

di Paolo Ferrari Magà – Dove comincia l’Appennino

Recensione a due CD-book sul canto tradizionale

Mauro Balma, Giuliano d’Angiolini
“Alle origini del trallalero genovese”
Nota, Udine 2018

Giuliano d’Angiolini
“Canti tradizionali della val Nure: il coro di Farini”
Nota, Udine 2018

Il libro di Balma e d’Angiolini è corredato di due CD di preziosissimo materiale documentario raccolto in gran parte da Balma nel corso della sua lunghissima attività di ricercatore nell’area ligure e delle Quattro Province (con non meno significative incursioni sulle Alpi di Cogne, in val d’Aosta).

Diciamo subito che il confronto tra il canto delle Quattro Province (le cosiddette bujasche) e il trallalero genovese svolto da Giuliano d’Angiolini (in dialogo con Mauro Balma) è — a mia conoscenza — il più approfondito tentativo di porre in luce le affinità e interazioni formali e contenutistiche tra le due forme di canto che oggi risuonano nelle feste e nelle osterie del nostro Appennino. Non mi avventuro in una sintesi di tale analisi. Chi da anni è abituato a convivere (da esecutore o ascoltatore) con queste due forme di canto polivocale, con i diversi respiri e colori che esprimono e suscitano all’interno dei comuni spazi conviviali delle comunità valligiane, troverà in questa lettura molte risposte e molti interrogativi. La tesi condivisa dai due autori — di un’origine del trallalero dal canto appenninico delle Quattro Province — propone in un certo senso un rovesciamento di prospettiva rispetto a un’opinione comune, mai per altro suffragata da prove decisive, che vorrebbe il trallalero originarsi da un ambiente urbano, portuale, marinaro. Anche se già negli anni Settanta Edward Neill dichiarava “sempre meno credibile” l’origine marinaresca del trallalero, lo studioso non mancava di evidenziare (un po’ nascosto in nota) “le analogie con il bei toscano, i tenores e le tasgie sardi, il cui impianto polivocale si presta a stimolanti confronti con il trallalero”, non spingendosi a teorizzarne un’unità e affinità originaria, ma neppure negandole radicalmente (così ci sembra). D’Angiolini si sente invece in dovere di sgombrare il campo da questa ipotesi, adombrata e forse non sostenuta da Neill, prima di svolgere le sue argomentazioni a sostegno della tesi di una derivazione del trallalero genovese dal canto dell’entroterra appenninico. Un’operazione forse necessaria al percorso analitico dell’autore, o quanto meno da lui avvertita tale, ma che ottiene anche il risultato di sottolineare (anche se per confutarle) le dette analogie, le quali potrebbero anche porsi in una posizione complementare alla tesi proposta dai nostri autori, consentendo di ipotizzare una duplice origine del canto polivocale genovese, proprio dall’incontro tra una sfera melismatica, ritmica e contrappuntistica mediterranea e quella invece dell’entroterra montuoso, così solenne nelle sue lentezze e profondità di valli e acque in lento scorrere verso la Padana.

Vedo che mi sto facendo prendere la mano, da non musicologo che, nel parlare di musica, deve attingere ad altri registri terminologici e concettuali, ma d’altra parte anche d’Angiolini, nell’esporre la sua tesi, pur apportando molti argomenti validi a sostegno di quella, si tiene saggiamente distante da toni di perentorietà.

Perché se la tesi, nella sua formulazione completa recita: “il trallalero ha origine nella polivocalità dell’entroterra ligure, in quella zona retrostante dell’Appennino che viene denominata delle “Quattro Province””, essa va diluendosi più oltre, dove leggiamo (a proposito di una versione appenninica di “Dove sei che non ti vedo”) che “la prossimità di questo genere di canzone appenninica con il trallalero rende possibile uno sviluppo verso quest’ultimo” e, a conclusione del serrato corpo a corpo con i due repertori, l’appenninico e il genovese, che “il trallalero è una creazione moderna, autonoma, molto originale e rapidamente evolutiva, che affonda le sue radici in quello stile formale, melodico, armonico, corale, di genere, che Genova doveva inizialmente condividere con le valli che la circondano”(p. 37).

Si tratta di tre formulazioni che lasciano, giustamente, spazio per varie e stimolanti intepretazioni le quali, a mio avviso, devono fare i conti con un altro punto che gli etnomusicologi mi pare abbiano sempre lasciato nella vaghezza (e certo non per negligenza), ovvero la datazione della nascita di tale stile polivocale. D’Angiolini: “non è azzardato sostenere che il tralallero stesso sia nato prima della metà di quel secolo, o comunque non dopo”. Molti decenni fa (la pubblicazione cui faccio riferimento, qui e nelle citazioni precedenti, è del 1976) Edward Neill non osava oltre: “testimonianze dirette lo danno per scontato già nell’Ottocento”, così correggendo l’opinione di un altro grande, Roberto Leydi, che lo collocava, nel suo “svilupparsi”, intorno agli anni Venti del secolo scorso). Neill però richiama la presenza costante del falsetto che ne evidenzierebbe le origini antiche ponendolo in contatto diretto o quasi con le cappelle musicali genovesi del Cinquecento “che impiegavano soprattutto soprani e contralti maschili di estrazione popolare”. A parte alcune considerazioni un po’ antiquate che tirano in ballo il carattere dei popoli, Neill richiama, certo più opportunamente, i documenti medievali dai quali, tra anatemi e frustate, si apprende che era molto diffuso a Genova “il costume di cantare a più voci”.

Il che, di per sé, non dice nulla nello specifico sul trallalero però ci muove l’interrogativo su cosa esattamente si intenda quando si dice che il canto polivocale che chiamiamo con questo nome nasce nell’Ottocento. Probabilmente si intende che in quella data il trallalero assunse quelle caratteristiche per il quale lo riconosciamo oggi in quanto tale. Ma siccome nulla nasce da nulla (in natura come in cultura) tutto sembra ridursi a una questione terminologica. Oppure, ritornando alla tesi di d’Angiolini e Balma, forse in quel periodo possiamo collocare l’incontro fatale tra la polivocalità appenninica (che scendeva a valle) e un qualcos’altro di diverso (che risaliva a monte dal capoluogo ligure), incontro dal quale sarebbe nato quel genere di canto polivocale che chiamiamo trallalero.

Certo è che, con più si risalga a ritroso la corrente della storia, tanto più si moltiplicano le possibilità di reciproche derivazioni dell’un genere dall’altro, mentre, giunti ai giorni di un recente passato, le testimonianze parlano di un’origine pavese delle bujasche (p. 82) grazie alle squadre di rezegotti che operavano sulle rive del Ticino, e di una penetrazione del trallalero sui monti delle Quattro Province, portato invece nel paese della val Boreca da giovani di Bogli emigrati a Genova (p. 81), e in vari altri modi, su ogni versante politico- amministrativo del territorio. Troviamo di questo processo svariati esempi. “Il percorso di discesa dei canti dell’entroterra nella città di Genova si è ripetuto specialmente nel corso degli anni Venti, ma in direzione contraria e con una esportazione dello stile di canto “alla genovese” dalla città alla montagna” (Balma, p. 80).

Insomma, il tema è ancora denso di implicazioni e foriero di interrogativi. Uno dei grandi pregi di questo lavoro è quello di aver per la prima volta, almeno credo, posto sistematicamente a confronto le buiasche appenniniche con il trallalero genovese, svolgendo quella tesi di cui si è detto (e dalla quale, comunque la si pensi, non potranno prescindere gli studi a venire sull’argomento), e ricostruendo altresì due ambienti così diversi eppure così legati dalle fitte trame del commercio, dell’emigrazione, della villeggiatura, in quel fatale volgere del Novecento che vide l’inizio di un lento e inesorabile travaso di genti dalle montagne verso le vicine città. Così, al fervore culturale che animò l’ambiente del mondo operistico cittadino e delle sue numerose varianti analizzate nel dettaglio da Balma, fa stridente contrasto il racconto attraverso testimonianze dirette della malinconica estinzione della vita conviviale nei paesi delle alte valli, a Bogli in particolare, villaggio della piacentina val Boreca, legato alla Liguria (ma anche a Milano) da antica emigrazione, ancor più rimpianto per la presenza di una ricca documentazione prodotta dallo stesso Balma negli anni Settanta, diffusa di mano in mano in audiocassette e in parte pubblicata anche nei CD allegati a questo libro.

Delle peregrinazioni etnomusicologiche di Balma per le valli delle Quattro Province abbiamo un resoconto letterario di gradevolissima lettura su questo stesso sito (“E valli e monti ho scavalcato“), mentre i risultati delle sue ricerche, insieme a documenti da altre fonti, sono in parte accolti nei due CD in allegato.

La ricerca di Giuliano d’Angiolini documenta una delle realtà più interessanti (e autentiche, anche se il termine oggi non incontra nell’ambiente etnomusicologico molta simpatia) del canto polivocale delle Quattro Province. Il CD-book dedicato al canto tradizionale del paese di Farini, in val Nure, precede di poco la pubblicazione di Balma e dello stesso d’Angiolini sul trallalero, di cui abbiamo poc’anzi detto, e le due opere ben si prestano ad essere ascoltate e lette in una prospettiva di confronto.

Il canto tradizionale di questo piccolo centro della val Nure, nella parte piacentina delle Quattro Province, è affrontato con un approccio globale, in un testo breve, ma denso di riferimenti ad altre tradizioni (suggestivo il cenno alla vocalità del canto mongolo a confronto con quello sardo) e di considerazioni di carattere fenomenologico che vanno oltre il puro fatto musicale tessendo una trama antropologica di gesti e posture che integra le considerazioni sulla vocalità degli esecutori, e con cenni, brevi ma forieri di suggerimenti, al contesto sociale e alle evoluzioni storiche dello stile esecutivo. Mi ha particolarmente interessato la parte relativa alla ballata con un passaggio nel quale mi sono molto ritrovato, anche in relazione ai miei interessi marginali sullo stesso argomento: “Si verifica nella ballata una curiosa dissociazione del vissuto temporale: se c’è evoluzione della trama, la musica si annulla invece nella ripetizione di un presente infinito, senza prospettive” (p. 30).

Non anticipo i contenuti di questo bel capitoletto che non teme audaci sconfinamenti filosofici, proficui in sé e negli sviluppi che prefigurano. Sul tema della ballata aggiungo solo, come riflessione personale, come essa si sia, probabilmente, nel passato a noi più prossimo, rifugiata in gran parte nell’intimità dei repertori femminili (e dei luoghi “privati” ad essi deputati) e là abbia conservato più integre le sue caratteristiche originarie: e penso ai nomi che la ricerca etnomusicologica ci ha salvato, di Teresa Viarengo di Asti, Adele e Ida Vandone di Cozzo Lomellina, Natalina, Luigina e Franca Bettinelli di Rivalta Cremasca, Maria, Mafalda e Jolanda Negro di Cosola, la famiglia Tagliani del Brallo e così via. Mentre il repertorio polivocale, in prevalenza maschile nel nostro territorio e legato al più pubblico e aperto ambiente dell’osteria e della festa di piazza, pur conservando al suo interno la forma ballata, abbia recepito contributi diversi, dal mondo dei cantastorie, ad esempio, del canto semi-colto (di provenienza genovese, per restare in tema), nonché dal repertorio del canto bellico, portato dai reduci dei due conflitti mondiali.

Il libretto rende il giusto merito, con rigore scientifico e partecipazione empatica, al repertorio di questi giovani cantori, certo non isolato in quel felice nodo orografico di tradizioni canore e rituali (si pensi anche agli antichi riti del maggio ai quali il nostro sito ha dedicato varie pagine, e si veda anche “Chi nasce mulo…” p. 105-135) rappresentato dalle valli piacentine delle Quattro Province, ma sicuramente ben demarcato, nelle sue caratteristiche espressive, anche rispetto agli altrettanto validi repertori delle aree finitime; averne sottolineato la specificità mi sembra un merito tra gli altri da ascrivere a questa proposta di ascolto e lettura densa di stimoli e foriera di ulteriori sviluppi di ricerca.

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