Volete sapere come si costruisce una lira? Ve lo spiegano Didier Demolin e Francesco Siviglia dal sito del progetto europeo Coling dedicato alle Lingue “minori”. In questa storia un messaggio in bottiglia viene raccolto da una giusta distanza incontra. In Italia, la “lira” è ancora associata prevalentemente alla valuta introdotta con l’unità d’Italia e poi sostituita dall’euro. In ambito musicale rimanda al guscio della tartaruga trasformato da Hermes nel cordofono di cui fece dono ad Apollo prima di trasformare Orfeo in sciamano: mitologie che rimandano al più antico cordofono di cui si abbia notizia, le lire a undici corde rinvenute a Ur del 2500 a.C. Ben pochi, invece, conoscono la lira calabrese e l’eredità culturale lasciata da costruttori e suonatori come Giuseppe Fragomeni. Ma, a volte, è la distanza a permettere di osservare il rilievo e la densità delle tradizioni locali: così è stato per il greco di Calabria e per la lira, strumento chiave per l’area grecanica. Nell’ambito del progetto Coling, la dimensione linguistica è stata messa in dialogo con quella musicale da Didier Demolin che, dalle sue basi accademiche fra Francia e Belgio, ha ascoltato quattro brani scelti nel 2013 da Ettore Castagna per un’“etnografia” di sé stesso: “Sonati gejusani”, “Organettara”, “Sonati di Contrada Chiusa”, “Sonati do Barilli”. Quei quattro brani messi a navigare nel mare magnum di Youtube hanno trovato le giuste orecchie una decina d’anni dopo, offrendo all’editore Nota un secondo, imperdibile capitolo, dedicato alla lira calabrese, occasione per incontrare nuovamente Ettore Castagna che, in queste pagine, ce l’aveva già presentata, sia in veste di scrittore (“Del sangue e del vino”), sia nel suo recente album “Ἐρημία/Eremìa”.
Qual è il tuo rapporto con la lira calabrese? Quando e come l’hai incontrata?
Avevo vent’anni e c’era da poco un gruppo musicale che faceva quello che allora si chiamava “riproposta”, “folk revival”, “musica popolare” ma anche tanta ricerca sul campo, il Re Niliu. Leggendo degli scritti di folclorista italiani di primo ‘900 che parlavano della lira mi venne in mente che magari qualcuno poteva essere ancora vivo, magari si poteva cercare una testimonianza. Il contagio con gli altri del Re Niliu fu rapido, ci mettemmo a cercare e fu una ricerca epica. Vennero fuori gli ultimi suonatori emersi da un mondo scomparso, un pezzo di mondo musicale bizantino che ci aveva aspettato fra le curve delle fiumare e in mezzo agli uliveti. L’incontro col primo suonatore, Giuseppe Fragomeni fu del 1980 ma fino al 1985 non la suonavo. Mi incuteva non so che timore reverenziale. Me ne impadronii velocemente dopo l’autunno del 1985. Per i primi vent’anni mi interessai solo alla lira della Calabria, poi non fu difficile capire che era il tassello del mosaico di un mondo organologico e musicale che andava molto oltre. Mi interessai alla lira nel mondo bizantino e allora venne naturale viaggiare e andare a ascoltare nei Balcani o in Anatolia e scoprire un universo. In Calabria la lira appartiene al mondo primordiale dei pastori e dei contadini; nel resto del territorio del nostro vecchio impero arriva ad essere un raffinato strumento di musica classica.
Quali scelte hai fatto negli anni nel documentare e nell’insegnare la lira e con quali risultati?
Ho scelto di studiare la lira esattamente come ho fatto con tutti gli altri strumenti della tradizione orale ovvero con l’ascoltare e il ripetere. Niente musica scritta. Piuttosto filmati e registrazioni. Ho insistito molto sul linguaggio, lo stile, il colore, il dialetto musicale. Insomma, la cifra stilistica di Pasolini. Se vuoi comporre poesie in una lingua devi imparare quella lingua e questo ho cercato di fare.
Come hai selezionato i brani inclusi nell’album? Cosa raccontano le “stanze”?
I brani dell’album sono sia di tradizione orale della Locride, sia di mia composizione nei modi e nello stile popolare. Lo stesso vale per le stanze che precedono ogni brano. Nella poesia popolare le stanze sono gruppi di quattro versi endecasillabi quasi sempre improvvisati che venivano usati alla festa come all’osteria per lanciare una canzone o una danza verso l’ascolto degli astanti. Spesso coincidevano con un brindisi accentuando l’aspetto lirico ed estatico del vino. Ho imparato da molti poeti popolari, ma, in questo caso, il mio riferimento è il grande Micu Tropìa, albero di canto di Siderno.
Come hai lavorato sui brani in cui i versi cantati vengono dal repertorio popolare e la parte musicale è firmata da te?
Ho lavorato come qualsiasi musicista di tradizione orale. Ho suonato in quello stile, in quel dialetto, in quella modalità. È un po’ come trovarsi a Milano fra paesani, parli nello stesso dialetto e ridi e ti diverti, ti senti capito e capisci meglio te stesso.
Il disco è accompagnato da un ricco testo di cinquanta pagine in italiano (tradotto anche in inglese): vuoi descrivere per sommi capi come l’hai organizzato e le “tesi” che contiene?
La mia formazione è quella di un antropologo affascinato dal vecchio motto vichiano che recita “la Storia è l’unica scienza”. Allora mi sono messo a scavare incrociando bibliografie, documenti della tradizione orale, sociolinguistica, elementi musicologi e organologici, viaggi di ricerca ed ho scoperto, nel mio piccolo, che la deriva etnomusicologica che partiva da Fivos Anoianakis, passava da Roberto Leydi arrivava per forza sotto il mio naso. Sono perfettamente d’accordo che la lira è un violino bizantino come sottolinea anche Sachs. Si tratta di uno strumento ad arco arrivato in Europa a cavallo fra Alto e Basso Medioevo e poi radicatosi nei territori dell’antico impero di Costantinopoli.
Vuoi presentarci i musicisti che hanno partecipato all’album e le modalità con cui il progetto è nato ed è stato registrato? Vi ascolteremo dal vivo?
Il disco è nato sostanzialmente su richiesta del professor Didier Demolin, etnomusicologo dell’Università Paris 3 Sorbonne Nouvelle, che mi ha coinvolto nel Coling Project sulle culture minoritarie. Devo alla sua insistenza l’aver accettato di registrare qualcosa di sostanzialmente filologico. In un certo senso Demolin mi ha convinto a documentare me stesso come principale testimone di una cultura musicale oggi scomparsa. Mi si perdonerà il “principale” ma sono l’unico di quel vecchio gruppo di ricerca che si è preoccupato con continuità negli ultimi quarant’anni di testimoniare in senso musicale, antropologico, didattico e storico quel linguaggio musicale, quel tipo di strumento, di fare un percorso di riproposta, di cercare un percorso innovativo collegandolo alle radici. I collaboratori, a dire il vero, non sono molti. La principale è Jenny Caracciolo, giovane figlia d’arte. Il suo canto, anche se con venature neomelodiche, riflette la modalità antica e melodiosa della muttetta con una ricchezza di note alterate e melismi non comuni. In due brani collabora Mimmo Morello, sia alla voce che alla zampogna. In un brano c’è la precisa controvoce di Peppe Muraca. Il disco contiene anche la riedizione di tre brani presenti nel vecchio album “Nistanimera” in uno canta in greco di Calabria Cinzia Villani.
Ascoltarci dal vivo? Non so. Sia i festival che i premi oramai sono orientati a strizzare l’occhio al mainstream, alle casse dritte e a inseguire una immagine di gusto giovane che nella realtà non esiste. Un po’ come nel mondo dell’editoria. La nostra cantante ha venticinque anni. Magari basterà…
Quali lire suoni nell’album e chi le ha costruite? Chi sono i costruttori con cui collabori?
Suono quasi esclusivamente lire costruite dal mio indimenticato maestro Giuseppe Fragomeni. Il loro timbro è ineguagliabile. Come costruttori recenti apprezzo molto il suono delle lire di Pino Rubino e Peppe Manganaro. I loro strumenti suonano in modo vicino a quelli storici.
Stai preparando un nuovo disco? Puoi anticiparci qualcosa?
Sto lavorando a diversi progetti insieme. Vorrei riuscire a far uscire un lavoro sui cantautori italiani arrangiati per chitarra battente registrato prima del Covid e rimasto da allora al palo. Sto lavorando al progetto di una nuova band etnodub ma su questo per il momento non aggiungo altro. Infine, sto lavorando al mio prossimo album da autore che si chiamerà “Anèvasi” (L’Elevazione) e uscirà (spero) nel 2025 sempre per i grandi amici di Alfamusic.
Ettore Castagna – Lira sona sona (Nota, 2023)
Sono passati quarant’anni da quando i Re Niliu condividevano i primi frutti del loro quinquennale lavoro di ricerca in Calabria pubblicando “Non suli e no’ luna”, dopo una settimana “chiusi in una casa di campagna vicino Catanzaro a ripetere i pezzi sin alla follia” e le registrazioni dal vivo in uno “studio immenso della Ariston a Milano, le sovraincisioni si contarono sulle dita di una mano (…) in una sola settimana, missaggio compreso”. La lira sarà parte delle sonorità del gruppo per la prima volta nell’album “Caravi”, registrato nel dicembre del 1987 a Vercelli per la Robi Droli, suonata da Ettore Castagna che nel 1994 allega un corposo libretto con testi, foto e trascrizioni musicali al CD “La lira in Calabria” pubblicato a Catanzaro dalla Cooperativa Raffaele Lombardi Satriani: diciassette brani che documentano suonate raccolte fra il 1981 e il 1987; nel 2008 sarà edito nuovamente da Nota. La lira accompagna Castagna in tutti i gruppi cui ha dato vita: i Nistanimera con cui pubblicherà nel 2004 “Chorè!” e poi Mankikani Band (2005-2008), Antiche Ferrovie Calabro-Lucane (2009-2014), IndoKalabristani Band, la ricostituzione dei Re Niliu nel 2014, che comprenderà, nel 2016, anche Giuseppe Muraca. A dialogare con Ettore Castagna in “Lira sona sona” sono lo stesso Giuseppe Muraca, Mimmo Morello, Anna Cinzia Villani (già nei Nistanimera) e Jenny Caracciolo. Quest’ultima, originaria della Locride, è protagonista di metà dei quattordici brani ed è una voce che colpisce e incanta per la chiarezza e la confidenza, ma anche per la versatilità con sui si relaziona e l’anima che sa infondere ai diversi brani: dai fluidi ricami di “Canzuni a ballu” e “Ciaramegliara”, alla solennità di “A Madonna da Muntagna” (dedicata alla Madonna di Polsi) e “Muttetta all’antica”, agli ammalianti dialoghi con il malarruni (scacciapensieri) in “Zingarota” e con i suoni ambientali ed i frischiotti in “Alla murra”. Anna Cinzia Villani sa concentrare in un unico brano, “Ela trekse” l’intensità del greco di Bova, offrendo una trama di note lunghe che trasformano le vocali in corpi vibranti in perfetta sintonia con le corde della lira e, per chi li porta negli occhi, con i profili aspromontani. In “Sirinata” sono ben tre le voci – di Castagna, Muraca e Caracciolo – ad intrecciarsi e a far trasudare il sentimento dolente di un brano del repertorio di Micu Tropìa da Siderno. Non potevano mancare una serie di sonate, il genere in cui dar spazio alle infinite microvariazioni ritmiche, timbriche e melodiche dello strumento: Domenico Morello ci mette i piedi nella “Sonata a ballu”, la zampogna a paru in “Sonati streussi” (dove fa capolino anche il tamburello), e la voce in “Sirinata all’aria”. In solitaria, Castagna ripropone due brani che lo accompagnano da molti anni: “Sonati gejusani” che rimanda al repertorio di Pasquale Jervasi di Gioiosa Jonica, e “Sonati do Barilli” ovvero di Domenico Trimboli, le cui sonate, famose nella Locride, sono state tramandate da Micu Tropìa che lo aveva accompagnato in gioventù. Dalle sonate di quest’ultimo vengono anche “Strofetti e sonati a ballu” che fanno interagire la lira con frischiotti, chitarra battente e tamburello. Con infinite variazioni, quest’album introduce l’ascoltatore ad un mondo che ha visto la lira protagonista sia in solitaria, sia nell’interazione con strumenti adatti ad animare il ballo e la festa, così come ad esprimere i sentimenti più intimi che accompagnano le relazioni sociali ed i cicli di vita.
Michele Gazich, Federico Sirianni “Domani si vive e si muore”, cd e booklet, edizioni Nota. Canzoni bellissime e potenti dai versi inediti del musicologo, giornalista, scrittore, intellettuale che vedeva lontano, tra i padri di Cantacronache, scomparso nel ’98, per affermare l’urgenza di un ruolo dell’arte in un nuovo impegno sociale. Un progetto del nipote Giovanni Straniero tra gli “ospiti” dell’opera insieme a Fausto Amodei, Gualtiero Bertelli, Maurizio Bettelli, Andrea Del Favero, Giovanna Famulari, Marco Tibu Lamberti, Alessio Lega, Paolo Lucà, Giovanna Marini, Giangilberto Monti, Moni Ovadia. Perché non c’è più tempo
Così abbiamo cominciato a scrivere canzoni. Canzoni che partivano prevalentemente da fatti di cronaca, per questo il movimento si chiamava Cantacronache, e riflettevano, per esempio, sul fatto che si potesse morire: che un bambino potesse morire una notte di capodanno (canzone di Straniero) o che si potesse morire nelle zolfare Emilio Jona
“Michele, da ragazzo, si mise prima a scrivere poesie e poi testi di canzoni che, come si sa, hanno due metriche diverse. E scriveva in qualunque posto e in qualsiasi momento, su un’agenda telefonica o sui fazzolettini di carta al ristorante (…). Straniero, dunque, fu un fervido poeta, pubblicò diversi libri e di lui disse Pasolini: ‘M.L. Straniero è uno dei pochi poeti del Novecento da ricordare’”.
Così scrive Giovanni Straniero nel booklet di Domani si vive e si muore, album pubblicato dall’editore Nota, nato da una raccolta di poesie inedite composte da suo zio Michele Luciano Straniero nell’arco della vita, e trasformate in canzoni da Michele Gazich (voce, viola, violino, pianoforte) e Federico Sirianni (voce e chitarra acustica), accompagnati dal basso elettrico e dal banjo di Marco Lamberti. I due musicisti e cantautori, insieme alle più autorevoli voci del folk italiano, come quella di Gualtiero Bertelli, Giovanna Marini, Fausto Amodei, Moni Ovadia, hanno risposto alla chiamata di Giovanni Straniero, ideatore del progetto, per restituire una vita agli scritti da lui ricevuti in eredità, e custoditi nell’ “Archivio Michele L. Straniero” alla Fondazione Carlo Donat-Cattin di Torino.
Pensieri, versi, suggestioni che l’autore intendeva tenere per sé, pubblicare su qualche rivista, oppure musicare? Non è dato sapere quale futuro avesse in mente Michele L. Straniero per questi suoi componimenti, ma è certamente una soluzione riuscitissima quella di rivestirli di note, perché la musica, più di ogni altra disciplina, ha contraddistinto l’attività professionale e l’esperienza umana di Straniero, da annoverare tra i padri della canzone d’autore.
“Avere incontrato Michele Straniero e avere musicato le sue parole è un dono immenso – scrive Michele Gazich – è stato un abbeverarsi alla fonte della canzone d’autore. E vicino alla fonte l’acqua è più fresca e pulita”.
Aggiunge Federico Sirianni: “Era la prima volta, per me che nella composizione di una canzone, la partenza è quasi sempre il testo, tentare di scrivere delle musiche su parole già scritte e, spesso, almeno questa era l’impressione, non per essere musicate”.
Ed è straordinario il lavoro di questi due artisti, autori di musiche e pensieri dalle trame di eccezionale spessore, premiati da riconoscimenti prestigiosi, uniti per la prima volta in un progetto comune, che li ha visti accogliere una sfida tremendamente difficile, quella di trasformare scritti altrui in canzoni, e con esse dare corpo alla voce più celata dell’autore. Prendendo in consegna un materiale fragile, che non poteva che richiedere una cura speciale e l’amorevolezza propria di chi quel materiale lo ha conosciuto e compreso nel profondo.
Domani si vive e si muore è un’opera che lascia un segno indelebile, per tante ragioni. Per la qualità evocativa dei testi, che si insinuano nell’animo di chi ascolta, mosso a partecipazione, condivisione di emozioni e sentimenti. Per la natura sensibile degli arrangiamenti, rispettosi del mondo musicale dell’autore; per la restituzione di un Michele L. Straniero introspettivo, privato che, con uno spiraglio di luce, ha rischiarato i momenti più segreti e inaccessibili della sua vita. Intrisi di rimpianti, di rabbia soffocata, di lotte personali ma anche di attese, di amori che non si sono avverati, di consolazioni, di dispiaceri sussurrati, di confessioni intime. Tracce di un’esistenza in cui egli appare in una dimensione del tutto ignota. Spesso commovente.
Di Michele Straniero è celebre la carriera pubblica di musicologo, giornalista all’Unità, autore e cantautore, di intellettuale impegnato. Giovanna Marini nell’autobiografia Una mattina mi son svegliata, lo definì “un grande personaggio di intelligenza lucidissima”, tra i primi studiosi in Italia a interessarsi di folklore, e in particolare di musica popolare, con l’obiettivo di portare all’interno della musica italiana nuove istanze legate all’impegno sociale e alle lotte delle classi subalterne, molto presenti nella canzone di tradizione. Si era in epoca di folk revival dove i grandi padri della ricerca sul canto popolare, Ernesto De Martino, Roberto Leydi, Diego Carpitella, davano l’avvio alle loro ricerche.
Si sa che fu allievo dei Salesiani di Torino e nell’adolescenza ebbe una formazione cattolica: fu infatti un militante di Azione Cattolica entro cui gravitavano altri giovani come Umberto Eco, Gianni Vattimo (che pure in seguito si allontaneranno da questa esperienza). Con loro vinse un concorso in Rai, entrando nella schiera dei cosiddetti “corsari”, giovani assunti per motivi intellettuali e di merito al di fuori delle logiche di lottizzazione e di appartenenza politica e lavorò alla redazione torinese per diverso tempo (Aldo Grasso L’addio a Carpitella corsaro della Rai, Corriere della Sera, 2008). Un luogo di lavoro stimolante, in cui venne a formarsi una redazione capace di elaborare progetti innovativi e di qualità, come il settimanale Orizzonte. Settimanale per i giovani. “Michele Straniero non è mai stato giovane – raccontava il nipote Giovanni –; già ai tempi del liceo classico si occupava di giornalismo. Era un funambolo della parola” (in Chiara Ferrari, Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati). Per Cantacronache, oltre a scrivere, come ricorda ancora Giovanna Marini, cantò anche diverse canzoni “con voce garbata di baritono, intonatissimo e musicale, con una memoria portentosa e una cultura da sapiente: un’enciclopedia ambulante”.
Nato a Milano nel 1936 Michele Luciano Straniero, figura di intellettuale eclettico, lo si ricorda come fondatore, con Sergio Liberovici, del gruppo Cantacronache che, a Torino dal 1958 al 1962, insieme a Emilio Jona, Fausto Amodei, Margot, nel pieno del miracolo economico italiano, scriveva, cantava e cercava di radicare il gusto per un altro tipo di canzoni, prendendo nettamente le distanze dalle canzonette di successo stile Festival di Sanremo. “Delle canzonette leggere in sé e per sé non ce ne importava molto: il nostro interesse non era mercantile, ma precisamente sociologico e ideologico, e decisamente contenutistico”, ricordava Michele Straniero in La rivolta in musica. Michele L. Straniero e il Cantacronache nella storia della musica italiana, di Giovanni Straniero e Mauro Barletta.
Canzoni a cui non spettava il compito di intrattenere un pubblico indistinto, ma farsi strumento per mostrare la realtà e ricostruire criticamente fatti di cronaca, consegnandoli così alla memoria collettiva. Le canzoni dovevano assolvere a una funzione educativa.
Per la prima volta emergeva con chiarezza la differenza tra “canzonetta” (bene di consumo nella nascente cultura di massa: “oggetto d’uso”, prodotto “gastronomico” slegato dal reale, come lo definì Umberto Eco) e canzone d’impegno (canzone d’autore, in cui riconoscere una poetica, un personale sguardo sulle cose). Evadere dall’evasione, infatti, era il motto scelto dai torinesi. Che erano sostenuti dalle voci più illuminate tra gli intellettuali, gli scrittori, i poeti dell’epoca. Da Italo Calvino a Umberto Eco, da Franco Fortini a Gianni Rodari, Franco Antonicelli, Mario Pogliotti.
I temi della quotidianità, quelli sociali e politici erano affrontati con parole intense e poetiche, melodie lineari adatte a sostenere il tono narrativo dei testi e a contrappuntare denunce pungenti mai gridate, ma mostrate in tutta la loro evidenza.
Canzoni diverse che facevano emergere uno sguardo alternativo sulla realtà politica, sociale e culturale italiana della fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta, comunemente considerati gli anni del boom economico. Quelli della corsa ai consumi, della trasformazione da Paese agricolo a industrializzato, della nascita della cultura di massa. Non era certo l’Italia del benessere quella evocata dalle canzoni di Cantacronache, ma l’Italia vista dalla parte di chi le trasformazioni le subiva, l’Italia della protesta, di chi stava dalla parte delle minoranze e osservava la realtà con occhio critico, cercando di smascherarne le contraddizioni. Le loro canzoni si facevano carico di raccontare fatti, eventi, condizioni esistenziali spesso rimaste celate. Come gli omicidi bianchi nelle zolfare, tra cui quella siciliana di Gessolungo, dove nel 1958, per un’esplosione da grisou morirono quattordici lavoratori e vi furono cinquantotto feriti. A ricordo del fatto fu proprio Straniero a scrivere La zolfara, canzone intonata da Pietro Buttarelli.
E poi il lavoro al nord, con le prime lotte operaie, le difficoltà delle donne nelle fabbriche, una lettura del boom per niente gioiosa, anzi, minata dalla fatica e dai sacrifici patiti dai lavoratori, dall’apatia racchiusa nelle parole di Canzone triste, intonata da Margot su testo di Italo Calvino. La lettura critica, dunque, del miracolo economico, con l’idea che celasse con la sua fascinazione i reali problemi del paese, avviato a una fase di forte cambiamento in tutti i settori. Come ricordava Amodei in Ero un consumatore e in La canzone della Michelin. I drammi che colpivano le frange sociali più deboli e i bambini, i più incolpevoli a farne le spese, per i quali Straniero scrisse la dolente Canzone di Capodanno.
L’anticlericalismo e la critica verso la cultura bigotta della DC, la cosiddetta “Vecchia balena”, rievocati in Il tributo o Questa democrazia.
La politica italiana del luglio 1960 con la morte di giovani nelle piazze durante uno sciopero, resa celebre dalla canzone Per i morti di Reggio Emilia. Un particolare momento storico, il luglio ’60, che per certi aspetti rappresentò un rimosso, per altri un cambio della politica della memoria istituzionale in Italia, con il recupero dell’antifascismo. Con questa e altre canzoni, Cantacronache ebbe il merito di comporre le prime canzoni sulla Resistenza, con l’intenzione di tramandare i valori emersi dalla lotta partigiana alle nuove generazioni. Tra queste, Partigiano sconosciuto, cantata da Straniero, su musica di Liberovici e testo della partigiana Claudina Vaccari.
e Partigiani fratelli maggiori, su musica di Fausto Amodei.
Straniero interpretò inoltre Tredici milioni, testo di Emilio Jona e musica di Fausto Amodei.
Sul tema della Resistenza, inoltre, curò l’album Canti della Resistenza italiana 5 per l’etichetta I Dischi del sole (1964), coinvolgendo figure di spicco come Giovanna Daffini, il Gruppo Padano di Piadena, Mario Lodi. Con Paolo Ciarchi e Dario Fo, incise Se non ci ammazza i crucchi. Canto che, si narra, sia stato raccolto da Dario Fo in un’osteria della Val Travaglia nell’autunno del 1943, ma che più probabilmente era una sua composizione originale.
Successivamente, nel 1975 partecipò al progetto collettivo di Pietà l’è morta – Canti della Resistenza italiana 1 (Dischi del Sole, 1975) interpretando, con Fausto Amodei, Quei briganti neri, canto partigiano molto popolare nell’Ossola,
e La Badoglieide canto satirico sulla figura di Pietro Badoglio improvvisato da Nuto Revelli e da un gruppo di partigiani il 25 aprile 1944 nella zona di Narbona.
Tra i temi chiave di Cantacronache, anche la protesta sociale e politica. Il collettivo fu tra i primi a occuparsi di ricerca sul campo e restituzione di canti del passato, raccolti poi in diversi album. Tra questi, Canti di protesta del popolo italiano 1 (Cantacronache 4, 1960 Italia Canta) in cui Straniero interpretava il canto ispirato allo scandalo della Banca Romana del 1893, Il crack delle banche di Ulisse Barbieri, accompagnato da Fausto Amodei alla chitarra,
e la Canta di Matteotti di autore anonimo, sempre con l’accompagnamento di Amodei.
In Canti di protesta del popolo italiano 2 l’intellettuale milanese, torinese d’adozione, eseguiva l’Inno della rivolta, cantato nel corso dei moti della Lunigiana del gennaio 1894, su testo di Luigi Molinari con Amodei alla chitarra.
Anche le rivoluzioni fuori dall’Italia trovavano l’attenzione dei torinesi e di Straniero in particolare che partecipò al viaggio in Spagna alla ricerca dei canti della nuova resistenza spagnola durante la dittatura franchista. In sostegno alle lotte d’indipendenza dell’Algeria compose e interpretò Canzone del popolo algerino.
“Per la mia generazione – dichiarò – la guerra d’Algeria ha avuto il valore che ebbe per i nostri padri la guerra di Spagna, e per i più giovani quella del Vietnam: ci fece scoprire l’oppressione e la tortura, ci diede la certezza morale e l’entusiasmo di essere dalla parte giusta, ci aiutò a capire la dinamica della storia, fu quella che si dice una ‘presa di coscienza’ che ci aiutò a diventare adulti. (Straniero, Rovello, Cantacronache, i Cinquant’anni della canzone ribelle).
Così l’antimilitarismo e le prime marce della pace in Italia, erano argomenti molto sentiti da Straniero che scrisse Viva la pace e La ballata del soldato Adeodato cantata da Edmonda Aldini su musica di Liberovici.
Ma anche i sentimenti raccontati senza retorica, diversamente dalle canzoni dell’epoca, imperniate su amori idealizzati, idilliaci, esotici, costruiti su luoghi comuni e rime baciate, vocalità melense e sdolcinate. Tra le canzoni da lui interpretate, Tutti gli amori, dal testo di Franco Fortini e la musica di Sergio Liberovici (Cantacronache 2, 1958, Italia Canta).
Tutti gli amori cominciano bene: /l’amore di una donna, l’amore di un lavoro/E anche l’amore per la libertà/Spesso gli amori finiscono male/Chi è amato non sa amare, lavora chi tradì/La libertà è di chi la può comprare.
Importante l’attività di curatore di dischi di canto popolare, politico e sociale, nell’ambito del Nuovo Canzoniere Italiano, dove fu tra le figure più rilevanti dopo la fine dell’esperienza con Cantacronache. Tra i tanti, si ricorda l’album di Giovanna Daffini e Vittorio Carpi, Una voce, un paese (1967, Dischi del Sole) e Il lamento dei mendicanti di Matteo Salvatore (1967, Dischi del Sole).
Ma collaborò anche a diverse produzioni collettive per I Dischi del Sole, interessandosi di canto anarchico. Tra queste, l’album Addio Lugano bella (1968) con la sua interpretazione, accompagnato dalla chitarra di Paolo Ciachi, dell’Inno dell’Internazionale, (canto risalente al 1874-75 scritto da Stanislao Alberici Giannini sull’aria della Marsigliese, nato come inno del lavoro e del proletariato) [https://www.youtube.com/watch?v=uk46LF2x8Ro] e della Marsigliese del lavoro (o Inno dei pezzenti) ricavato da una poesia di Carlo Monticelli del 1881.
Nell’album L’Ordine nuovo (Antologia della canzone comunista italiana, Dischi del Sole, 1968) con l’anonimo Torna a casa americano, riaffermava le proprie idee pacifiste.
Riproposte in altre due canzoni, Preghiera Del Marine di Ivan Della Mea e Paolo Ciarchi, con l’accompagnamento di Ciarchi e La Révolution dal testo in francese di Mao Tse Tung e musica di Sergio Liberovici, incise per le edizioni Linea Rossa (emanazione di I Dischi del Sole) nel 1967.
Nel periodo di attività con il Nuovo Canzoniere Italiano fu inoltre protagonista dell’episodio più clamoroso legato allo spettacolo Bella ciao: il 20 giugno 1964, al festival dei Due Mondi di Spoleto, Michele Straniero cantò, in sostituzione di Sandra Mantovani che era indisposta, i versi censurati di O Gorizia, tu sei maledetta, canzone di trincea della prima guerra mondiale, suscitando grande scandalo (quei versi erano stati proibiti da un accordo con il teatro, perché erano un’invettiva al mondo militare accusato di aver portato alla rovina l’Italia). Gli costò una denuncia per vilipendio alle forze armate italiane insieme ai responsabili della manifestazione. In particolare i versi Traditori signori ufficiali / che la guerra l’avete voluta / scannatori di carne venduta / e rovina della gioventù suscitarono in sala la reazione degli ufficiali presenti; nelle serate successive lo spettacolo venne costantemente disturbato da gruppi di fascisti. Quest’occasione rivelò di Straniero la forte personalità, un convinto e intransigente antifascismo.
Una versione con Fausto Amodei.
Nel 1966 fu tra i fondatori, a Milano, dell’Istituto Ernesto de Martino, intitolato al grande etnologo scomparso l’anno prima, e motore dell’attività del Nuovo Canzoniere Italiano per gli anni a seguire.
Straniero fu inoltre attivo nella ricerca di canti sociali, raccolse materiali in Piemonte, Puglia e Sicilia e nella Spagna franchista insieme a Sergio Liberovici e Margot.
Vastissima la sua produzione saggistica, tra cui si possono citare: I canti del mare nella tradizione popolare italiana (Milano, Mursia, 1980); Canti della grande guerra (Milano, Garzanti, 1981); Canti politici e sociali (Milano, Gammalibri, 1984); con Sergio Liberovici: Canti della nuova resistenza spagnola (Torino, Einaudi, 1962); con Emilio Jona, Sergio Liberovici, Giorgio De Maria il fondamentale Le canzoni della cattiva coscienza, prefazione di Umberto Eco (Milano, Bompiani, 1964); Antologia della canzone popolare piemontese tra settecento e novecento (Torino, Paravia, 1998); Manuale di musica popolare (Milano, Rizzoli, 1991).
Nel 1974 esordì come interprete solista pubblicando un intero album per I Dischi dello Zodiaco, Coi comforts della religione,
e nel 1975 Quando ero monaca. Canzoni allegre, maliziose e salaci, ricavate dalla tradizione popolare e dal vaudeville [intero album https://www.youtube.com/watch?v=J-zyI5YJ8L8] inaugurando una proficua collaborazione con Antonio Virgilio Savona, produttore e direttore della stessa etichetta discografica, oltre che arrangiatore e voce del Quartetto Cetra. Collaborazione che proseguiva nel 1977 con la realizzazione dell’album collettivo Al Gran Verde Che Il Frutto Matura – Canti Anarchici Di Pietro Gori, insieme a Gigliola Negri, Margot e Il Gruppo Folk Internazionale, dove Straniero incise Dimmelo Pietro Gori scritto da un anonimo nel periodo in cui l’anarchico era costretto al soggiorno coatto all’Elba (1896).
e due canti scritti da Pietro Gori: Addio compagno addio (Canto dei coatti)
e il celebre All’amor tuo fanciulla (Amore ribelle).
Con Savona, che era anche studioso ed etnomusicologo, realizzò inoltre diverse ricerche sul patrimonio orale, pubblicando saggi, tra cui Canti dell’emigrazione (Milano, Garzanti, 1976); Canti dell’Italia fascista (1919-1945) (Milano, Garzanti, 1979).
Nel 1979 esordiva come cantautore, con la pubblicazione dell’album La Madonna della Fiat per l’etichetta Divergo, con tracce musicali composte da Fausto Amodei, Margot, Sergio Liberovici, Virgilio Savona, Piero Santi e il musicista greco Notis Mavroudis. La canzone che dà il titolo al disco si riferiva alla statua della Madonna situata a Torino sul Monte dei Cappuccini. All’inizio degli anni Sessanta la direzione della Fiat aveva finanziato la realizzazione di una statua della Madonna (chiamata La Madonna dei lavoratori) in un punto strategico della collina torinese, sulla piazzetta davanti al Monte dei Cappuccini. Il collettivo Cantacronache, individuando una stonatura fra l’installazione di una statua sacra (che venne inaugurata il 27 marzo 1960) e il carattere dell’azienda che promuoveva l’iniziativa, compose appunto la canzone, con il testo di Straniero. Che la inserì nel suo album da solista. Ecco l’album intero.
Con Franco Lucà, negli anni Ottanta diede vita al Centro di Cultura Popolare di via Perrone a Torino e alla rivista mensile “Folk notes”: da queste due esperienze nasceva, nel 1988, il Folkclub, che rilancerà la musica popolare e d’autore. Il 4 agosto 1998, nel pieno della sua attività, Michele Luciano Straniero venne travolto da un’auto mentre stava attraversando corso Rosselli a Torino. Non si riprese più e morì a Torino il 7 dicembre 2000, lasciando una eredità di opere incompiute. Sprazzi della sua vita, spesa tra i libri e la musica, in Domani si vive e si muore compaiono nelle due canzoni originali composte dal duo Gazich – Sirianni per celebrare, con le loro parole, la figura dell’autore.
In apertura Ho incontrato Michele Straniero, introdotto dalla voce di Giovanni Straniero, è un immaginario incontro con l’intellettuale torinese, in cui persone ed eventi che hanno accompagnato la sua vicenda di artista e di studioso vengono alla ribalta. Titoli di canzoni, come Oltre il ponte, tra le più celebri di Cantacronache, e La zolfara, da lui scritta. Matteo Salvatore e Giovanna Daffini, dei cui dischi fu curatore, sono a rappresentare il canto popolare, argomento di studio e ricerca. L’irrompere della voce di Gualtiero Bertelli svela il senso della canzone, un sogno, l’illusione ma anche il bisogno di veder tornare oggi Michele L. Straniero, insieme alla sua fede antifascista a liberare un’Italia tinta di nero.
In chiusura Danzacronaca, con la partecipazione straordinaria di Fausto Amodei nell’introduzione parlata. Altre voci si alternano, quella di Giovanna Famulari con il suo violoncello, quella di Alessio Lega, di Giangilberto Monti, di Paolo Lucà.
Qui al ritmo di una danza macabra, Straniero è alla testa di un corteo di artisti e menti illuminate che hanno fatto parte della sua vita e che ora come lui non sono più su questa terra: Umberto Eco, Fabrizio De André, Danilo Dolci, poeta e attivista per la non violenza, Italo Calvino, Franco Lucà, tutti insieme a ricordarci che si vive e si muore, come bene sanno i poeti e i cantautori.
In mezzo ai due brani originali c’è il mondo privato di Michele L. Straniero. Un mondo in cui si entra con discrezione, in punta di piedi. Dove l’interpretazione è libera e scaturisce dagli interrogativi esistenziali di ciascuno.
Ci si imbatte nell’usitato scontro generazionale tra genitori e figli, e le diverse aspettative, e i sensi di colpa di chi sente di non essere riuscito a incarnare l’ideale tanto sperato (Lettera ai genitori). C’è la malinconia dei luoghi in cui si sono seminati ricordi, ma il tempo è trascorso e tutto è cambiato (Le case, le strade, la gente). Ritratti di figure femminili che sono esistite di un’esistenza modesta, di amori mancati (L’altro), di solitudini (Marta). Echi di protesta si odono in Da un cielo umano, dove l’eterna violenza degli oppressori sugli oppressi, dei padroni sulle miserie della povera gente e dei popoli disarmati, fa sì che la colomba della pace stenti a planare su questa terra. A fare da contrappunto la storica voce di Giovanna Marini, accompagnata dall’armonica a bocca di Maurizio Bettelli e dall’organetto di Andrea Del Favero.
Il corridoio del Nautilus è la traccia più struggente e “teneramente” disperata, ma dalla desolazione ci si può salvare.
L’amore che riempie ognuna delle parole scritte e, insieme, le note che le hanno rivestite; l’amore che appartiene a tutti i sognatori, che è coraggioso e vince ogni battaglia. L’amore che manda avanti il mondo. L’amore è sempre il punto.
Tra i testi che hanno segnato il percorso più intrinseco e umano dell’autore, c’è quello che dà il titolo a tutta la raccolta, che è una constatazione certamente meditata e sofferta, ovvero la consapevolezza della precarietà di tutte le cose, dell’impossibilità di trattenerle, perché domani si vive e si muore.
Come Margot, con la quale Straniero, più degli altri componenti di Cantacronache, aveva mantenuto un rapporto affettivo e di collaborazione, è riuscita a far convivere la sua natura più “barricadera” con quella intima, degli interni domestici, degli oggetti quotidiani, come ricordava Italo Calvino nelle note al disco d’esordio Canzoni di una coppia, così anche Straniero ha tenuto traccia del suo personale sentire. E la voce con cui ha gridato la protesta e la denuncia di fatti di cronaca quotidiana, incisa nei dischi e fissata nei libri è stata accompagnata da un sussurro, quello dei fatti interiori, dei sogni, dei pensieri, delle emozioni.
Ma il disco non è solo la voce intima di un grande intellettuale del Novecento, è anche una celebrazione della storia alternativa del nostro Paese, “alternativa perché proviene da un mondo che, è vero, non esiste più, ma che rappresenta un vivere etico, in cui i canti sono sempre espressione di un interesse collettivo e mai individuale” (Giovanna Marini); quella che ci è arrivata attraverso le ricerche sul campo e il recupero del patrimonio orale, quella che ci è giunta attraverso le canzoni composte a ricordo dei principi su cui si fonda la nostra Costituzione: la lotta partigiana, l’antifascismo. Il pacifismo. Quella che ci è pervenuta attraverso l’impegno di coloro che hanno dato voce alle istanze dei più fragili, ai quali non si può che essere sempre e per sempre grati.
Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
https://www.nota.it/wp-content/uploads/2023/09/Gazich-e-Sirianni-Foto-Flavio-Dal-Molin-scaled.jpg25602560Linda Fierrohttps://www.nota.it/wp-content/uploads/2017/07/Nota-header-1.pngLinda Fierro2024-02-19 11:45:212024-02-19 11:48:13Michele Luciano Straniero, poesia e voce della protesta. Dalle lotte del Novecento al futuro
Sul finire del 2003 è uscito il booklet+cd “Domani si vive e si muore – Inediti di Michele L. Straniero” (Nota – 2023), un disco scritto a quattro mani da Michele Gazich e Federico Sirianni, che hanno lavorato sapientemente su dei testi inediti di Michele Luciano Straniero ritrovati dal nipote Giovanni Straniero, da cui è partito l’intero progetto e che ha fatto da regia in questo complesso lavoro di recupero. Il risultato è un disco che ha permesso di portare alla luce brani attuali, vividi, urgenti, perché, come scrisse Straniero, domani si vive e si muore.
Nome?
M.G. – Michele
F.S. – Federico
Cognome?
M.G. – Gazich
F.S. – Sirianni
Nato a?
M.G. – Brescia
F.S. – Genova
Anno di nascita?
M.G. – 1969
F.S. – 1968
Vivi a?
M.G. – Venezia
F.S. – Torino
Professione?
M.G. – Scrittore di canzoni
F.S. – Scrittore di canzoni
Come è cominciato il tuo rapporto con la musica?
M.G. – Mio padre mi ha insegnato a leggere le note ancor prima delle lettere. Credeva che io fossi Mozart. Si sbagliava.
F.S. – Da bambino, a casa con mia madre cantante.
Qual è stato il tuo primo contatto con la musica di Michele Luciano Straniero?
M.G. – A fine anni Novanta vivevo a Torino e conobbi Giovanni, il nipote di Michele Straniero, frequentando il FolkClub fondato dal suo illustre zio e da Franco Lucà. In breve, Giovanni ed io diventammo amici: bevevamo vino e suonavamo insieme. Grazie a lui ho conosciuto le canzoni di Michele Straniero.
F.S. – Più che con la musica di Straniero, col mondo dei Cantacronache: a Genova, conoscendo e frequentando in gioventù Andrea Liberovici, figlio di Margot e Sergio Liberovici.
Gazich e Sirianni – Foto Flavio Dal Molin
Com’è nata l’idea di realizzare un disco di inediti di Michele Luciano Straniero?
M.G. – Giovanni da decenni mi aveva proposto gli inediti dello zio da musicare. Per qualche motivo, riteneva che io fossi la persona giusta. Da solo, tuttavia, non avevo coraggio di farlo; ero intimorito. Lavorando a quattro mani con Federico, mi sono sbloccato.
F.S. – Da un’idea di Giovanni Straniero, nipote di Michele. Ha ritrovato degli scritti inediti dello zio e ha proposto a Michele Gazich e al sottoscritto di trasformarli in canzoni.
Ritieni sia stato più difficile o emozionante scegliere le poesie inedite da musicare e adattare in forma di canzone?
M.G. – Incredibilmente emozionante. Una volta che mi sono sbloccato, tutto è stato naturale, spontaneo. Non difficile, ma molto, molto emozionante. Michele Straniero è la fonte della canzone d’autore in lingua italiana. E bere l’acqua alla fonte, che è più limpida e pulita, è stato rigenerante!
F.S. – Entrambe le cose in egual misura.
Con quale criterio sono stati scelti gli otto inediti di Straniero?
M.G. – Si sono scelti da soli. Michele Straniero voleva far conoscere a noi (e attraverso di noi a chi ci avrebbe ascoltato) un’altra faccia di sé: più intima e personale. Le canzoni indicano sempre una via. Noi siamo stati strumento.
F.S. – A sensazioni personali, qualcuno l’ho scelto io, qualche altro Michele, trovando gli scritti che ci colpivano maggiormente e che avessero le caratteristiche per essere adattate alla forma canzone.
Com’è stato scelto il titolo del disco Domani si vive e si muore, che trasmette un senso di urgenza, di concretezza, di mancanza di tempo da perdere?
M.G. – Permettimi due parole in più su questo punto, che sento importante. Federico ed io siamo stati immediatamente rapiti dal verso conclusivo di uno tra i testi che Michele Straniero ci ha lasciato: “Domani si vive e si muore”, appunto. Abbiamo dapprima pensato che potesse diventare il titolo di quel componimento e infine anche di tutto il disco, perché ne definisce il contenuto: personale, esistenzialista, di riflessione sul male di vivere e morire. Noi umani un domani vivremo e un altro domani moriremo: è una delle poche certezze che abbiamo a disposizione. Il fatto, poi, che Straniero scriva “Domani si vive e si muore” e non “Domani si vive o si muore” propone anche un’altra idea, una molto amara, e cioè che ad alcuni di noi possa capitare di vivere e morire contemporaneamente, sperimentando una sorta di “morte in vita”. Il che ci conduce ad altri due versi meravigliosi e terribili scritti da Straniero, in un testo intitolato emblematicamente Lettera ai genitori: “La mia vita oggi è finita / La vostra è mai cominciata?” Al di là di ciò, il titolo per me ha sempre riecheggiato un verso di Pasolini, dalla raccolta giovanile Poesie a Casarsa (1942): “Oggi è domenica, domani si muore”, verso che viene ripreso – alla lettera – da Giovanni Lindo Ferretti nella canzone conclusiva (Irata) di uno degli album più importanti nella storia della canzone e del pensiero in Italia: Linea Gotica dei C.S.I. (1996). Quella canzone e quei versi erano per me un ascolto quasi quotidiano in quegli anni. Allora vivevo a Torino, la città dove ancora viveva e scriveva Michele Straniero e già da anni frequentavo lo storico FolkClub, da lui fondato con il musicologo Franco Lucà. Questo titolo provoca dunque in me un cortocircuito di memorie che mi riporta alla mia gioventù, alla musica che allora ascoltavo, a una Torino, oggi scomparsa, in cui vivevano e operavano intellettuali come Michele Straniero.
F.S. – È una frase presente in una delle poesie che abbiamo musicato, ci sembrava molto significativa e capace di descrivere in sei parole il mondo e la poetica di Michele Straniero.
Al FolkClub – Federico Sirianni ripassa, Michele Gazich riordina le carte
Come consideri la collaborazione con il tuo collega musicista in questo lavoro?
M.G. – Una delle cose più belle che mi siano avvenute lo scorso anno.
F.S. – È stata un’esperienza molto positiva e arricchente che, credo e spero, proseguirà in altri progetti artistici.
Credo che musicare dei testi nati per un altro scopo non sia stata un’operazione facile, ti sei mai sentito in difficoltà tale da pensare di rinunciare?
M.G. – Ho rinunciato per vent’anni. Poi ho deciso o, meglio, ho sentito che era giunta l’ora di superare la mia debolezza, che era giunta l’ora di provarci. Spero di aver fatto bene.
S. – Non è stato facile perché misurarsi con un personaggio di tale rilevanza nel mondo letterario e musicale è molto rischioso, ma non c’è mai stato un momento in cui abbiamo pensato di non portare avanti il progetto.
Quanto l’essere in due a lavorare sugli inediti è stato un aiuto, quanto una ulteriore difficoltà?
M.G. – Decisamente un aiuto.
F.S. – Per quel che mi riguarda ho goduto solo dei lati positivi di questo lavoro a quattro mani.
Il disco inizia e finisce con due brani appositamente scritti da voi in omaggio a Michele L. Straniero. Il brano che apre il disco, Ho incontrato Michele Straniero, racconta un immaginario incontro tra te e Michele L. Straniero nella sua Torino, mentre il brano che lo chiude Danzacronaca, è una sorta di macabra danza in cui insieme a Michele L. Straniero sono citati tanti altri musicisti che hanno lasciato un segno indelebile nella canzone d’autore. Com’è stato scrivere questi due brani musicali a quattro mani? È un’esperienza che ripeteresti?
M.G – Un’esperienza che ha arricchito il mio percorso artistico e umano. La stiamo già ripetendo…
F.S. – Sentivamo la necessità di due “canzoni-cornice” in cui incontrare virtualmente Michele Straniero raccontando qualcosa di lui. Scrivere insieme a Gazich è stato molto naturale e sereno, ci siamo trovati d’accordo sostanzialmente su tutto.
Tra questi due brani, come si è detto sopra, otto inediti. Quale tra questi ami di più e perché?
M.G – Il corridoio del Nautilus. Perché? Perché è il Blues se hai vissuto a Torino e non nel Mississippi. Abbiamo tentato di scrivere una musica all’altezza del testo: claustrofobica, iterativa, dolorosa, incollocabile.
F.S. – Mi sono affezionato a tutte le canzoni del disco, mi commuove l’intervento di Giovanna Marini in Da un cielo umano.
In questo intenso lavoro discografico hanno preso parte ben dodici ospiti, come sono stati scelti? Qualcuno più di altri ti ha colpito in particolar modo?
M.G. – Tutti (o quasi) avevano conosciuto Michele L. Straniero. Due sono miei amici cari: Gualtiero Bertelli e Moni Ovadia, con i quali collaboro stabilmente. Entrambi in qualche modo sono stati scoperti da Straniero. Gualtiero mi ha raccontato che, quando Straniero lo sentì cantare la prima volta, chiamò Nanni Ricordi e disse: “Ho incontrato un uomo che quando canta urla come un pazzo e suona la fisarmonica come una clava”. Gualtiero la ritiene ancora la miglior definizione della sua arte.
F.S. – Approfitto per ringraziarli tutti per la partecipazione entusiasta. Ho detto di Giovanna Marini e ho da sempre un debole per Moni Ovadia.
Credo che insieme abbiate fatto un lavoro di recupero straordinario, un’opera come questa a quale pubblico è destinata?
M.G. – “Un disco per tutti e per nessuno”, parafrasando il sottotitolo di un libro fortunato… Penso che sia la riscoperta importante di una fonte maggiore della canzone d’autore in lingua italiana. Sono davvero fiero di aver fatto questo disco con Federico e Giovanni!
F.S. I tempi ci dicono che parrebbe destinata a un pubblico di nicchia e non più giovane ma, secondo me, se le nuove generazioni ascoltassero queste parole ci si ritroverebbero profondamente.
Michele Gazich e Federico Sirianni
Non ritieni che il frutto di un’operazione culturale di questo genere potrebbe essere portata nelle scuole? Come sarebbe accolta dai giovani secondo te?
M.G. – Sarebbe certamente accolta bene. Avverrà. Stimo i giovani. Quelli che temo sono i vecchi.
F.S. – Sarebbe molto bello portare Michele Straniero nelle scuole e, come detto prima, credo sarebbe apprezzato davvero.
A conclusione di un lavoro così complesso, cosa ti ha lasciato Michele Luciano Straniero?
M.G. – Il sogno di un’Italia libera.
F.S. – La voglia di rimettermi a scrivere dopo un lungo periodo di inattività creativa.
https://www.nota.it/wp-content/uploads/2023/09/Gazich-e-Sirianni-Foto-Flavio-Dal-Molin-scaled.jpg25602560Linda Fierrohttps://www.nota.it/wp-content/uploads/2017/07/Nota-header-1.pngLinda Fierro2024-02-05 11:03:382024-02-05 11:03:38Michele Gazich Federico Sirianni – Domani si vive e si muore (inediti di Michele L. Straniero), due diversissimi artisti al servizio di un prezioso lavoro di recupero
“Partigiani sempre!”. La lotta di Liberazione narrata in un booklet + cd edito da Nota e che è anche uno spettacolo teatrale. Musiche e testi di Yo Yo Mundi insieme a Maurizio Camardi e alla scrittura drammaturgica di Massimo Carlotto, che propone inoltre un suo racconto inedito, fotografie d’epoca e illustrazioni di Tinin Mantegazza e Ivano A. Antonazzo. Un grande omaggio a “Cantacronache” e ai valori dell’antifascismo. La memoria delle stragi più feroci e del coraggio di chi combatté la Resistenza. Parla il leader degli Yo Yo Mundi, Paolo Enrico Archetti Maestri
“Non è per via della gloria che siamo andati in montagna a fare la guerra. Di guerra eravamo stanchi, di patria anche. Avevamo bisogno di dire: lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie lasciateci dormire nel fienile, con una ragazza. Per questo abbiamo sparato, ci siamo fatti impiccare, siamo andati al macello col cuore che piangeva, con le labbra tremanti. Ma anche così sapevamo che di fronte a un boia di fascista noi eravamo persone, e loro marionette”. Nino Pedretti
Anche da queste parole del poeta di Santarcangelo di Romagna hanno preso forma uno spettacolo teatrale e un album, dal titolo Partigiani Sempre!, edito da Nota, con le musiche e i testi di Yo Yo Mundi insieme a Maurizio Camardi e la scrittura drammaturgica di Massimo Carlotto. Il titolo prende spunto da altre parole, ma inedite, tratte dagli stornelli di Radio Libertà, emittente clandestina dalla provincia di Biella che fu attiva dall’autunno 1944 all’aprile 1945, gestita da partigiani. Omaggio, dunque a Cantacronache, autori, in particolare Sergio Liberovici per la musica e Franco Antonicelli per il testo, di Festa d’aprile, brano composto nel 1948 proprio a partire dagli stessi stornelli. Un riconoscimento a Cantacronache è del resto quasi obbligato, a loro (Sergio Liberovici, Emilio Jona, Michele L. Straniero, Fausto Amodei, Margot), si deve il recupero, tra i primi, dei canti intonati dai partigiani e la composizione di canti nuovi, a memoria della Resistenza, con l’impegno di riportare in primo piano i valori emersi da quell’esperienza di lotta e di riscatto, proponendoli in un contesto conflittuale come quello che vedeva l’affermarsi di un governo, quello di Fernando Tambroni, nato nel marzo 1960, con l’appoggio esterno del Msi. Formare una coscienza civile, era l’obiettivo, rendere consapevoli le nuove generazioni che gli scontri di piazza del luglio 1960 erano figli della lotta partigiana.
L’album si struttura in un alternarsi di canzoni, musiche e narrazioni, in cui la voce di Carlotto disegna la trama che tiene unite le storie, a cominciare da È sempre 25 aprile.
Così, allo stesso modo di Cantacronache, con l’intenzione di tenere vivi i valori che nacquero in seno alla Resistenza, alla base del progetto Partigiani Sempre! c’è l’idea di ricordare, attraverso canzoni e racconti, alcune delle stragi più feroci della Resistenza, tra cui forse la più devastante. Si tratta della Benedicta, avvenuta il 7 aprile del ’44, presso Capanne di Marcarolo, nel comune di Bosio, Appennino ligure. E con essa celebrare il sacrificio di tanti giovani, senza armi, scarpe rotte e poco altro, che presero la strada dei monti, salirono lassù tra i boschi della Benedicta, dove la nebbia è più fitta – parole della canzone Sai che vai su, tratte dal romanzo Primavera di Bellezza di Beppe Fenoglio – e in tanti ci rimasero.
“Tutto nasce, grazie al nostro legame con l’Associazione Memoria della Benedicta – spiega Paolo Enrico Archetti Maestri, leader di Yo Yo Mundi, in un’intervista rilascia a Patria Indipendente – al fine di dare un risalto più ampio a questa strage così rilevante e tragica, così poco ricordata. La strage della Benedicta è sotto la nostra pelle come lo fu la vicenda della Divisione Acqui”.
La citata Associazione Memoria della Benedicta, attraverso la sua pagina informativa online porta a pubblica conoscenza l’entità della perdita: “Il 7 aprile 1944 ingenti forze nazifasciste circondarono la Benedicta e le altre cascine dove erano dislocati i partigiani e colpirono duramente i giovani, spesso impossibilitati a difendersi per la mancanza di un adeguato armamento e di esperienza militare. Il rastrellamento proseguì per tutto il giorno e nella notte successiva. Molti partigiani, sfruttando la conoscenza del territorio, riuscirono a filtrare tra le maglie del rastrellamento, ma per centinaia di loro compagni non ci fu scampo. In diverse fasi i nazifascisti fucilarono 147 partigiani, altri caddero in combattimento; altri partigiani, fatti prigionieri, furono poi fucilati, il 19 maggio, al Passo del Turchino. Altri 400 partigiani furono catturati e avviati alla deportazione (quasi tutti a Mauthausen), ma 200 di loro riuscirono fortunosamente a fuggire, mentre i loro compagni lasciarono la vita nei campi di concentramento.”
Un numero di vittime impressionante, una strage di giovani senza eguali. Una vicenda emblematica che riassume in sé tutto lo strazio e l’insensatezza della guerra.
Tema caro alla band folk-rock di Acqui Terme, da sempre interessata al recupero di storie legate alla lotta partigiana nel loro territorio, con lo scopo di farne memoria, come già fu per i precedenti lavori. Dalla partecipazione all’album Materiale Resistente (1995) con la canzone I banditi della Acqui, brano da cui nascerà uno spettacolo teatrale intitolato Il Bandito della Acqui: memorie di un soldato dimenticato. Poi il concerto-evento, nel gennaio 2005 a Casale Monferrato in occasione del sessantesimo anniversario della Liberazione. Uno spettacolo intitolato La Banda Tom e altre Storie Partigiane, dedicato alla banda partigiana trucidata dai nazi-fascisti il 15 gennaio del 1945, diventato l’album dal vivo Resistenza, pubblicato il 25 aprile 2005.
Qui si avvalgono dell’intervento importante di Massimo Carlotto. E della consultazione dei materiali originali, custoditi presso il Centro di documentazione Cascina Pizzo, oltre che delle testimonianze di coloro che vissero la tragedia avvenuta sull’Appennino ligure, tra Genova e Alessandria.
Le atmosfere musicali create da Maurizio Camardi, poi, con i suoni antichi del duduk, strumento tradizionale armeno, insieme all’uso di sintetizzatori, flauto armonico, ukulele, tin whistle, banjio, percussioni, sax soprano e sax tenore, sono una colonna sonora senza tempo e dalla connotazione geografica vasta e variegata, per raccontare storie che si sono disseminate in tanti luoghi, ovunque ci sia e ci sia stata una dittatura, ovunque un oppressore abbia ridotto un popolo alla privazione dei diritti umani fondamentali.
Così, numerose sono le vicende messe in scena, storie vere di uomini, donne, bambini scomparsi. Attraverso la narrazione di Carlotto prendono vita come i personaggi di una Spoon River partigiana a cui lo scrittore dona voce e memoria perché possano raccontare chi erano in vita e ciò che è stato di loro.
Il primo, appena trentenne, da Genova sale sui monti nella zona del Tobbio e delle capanne di Marcarolo sull’Appennino, tra edifici diroccati e borghi disabitati. Pronto a organizzare la resistenza di un gruppo eterogeneo per cultura e fede politica, accomunato dal fatto di essere composto di giovani volenterosi, pronti a mettersi a disposizione per la medesima causa. È proprio lui a raccontare dall’interno la strage che avvenne. Di come il 6 aprile del ’44 si scatenò l’inferno, dentro la sacca senza uscite che era la zona tra la Valle Stura e la Valle Scrivia.
“All’alba del 7 aprile iniziarono ad ammazzarci – racconta – I bersaglieri ci avevano divisi a gruppi di cinque e il fattore della Benedicta annotava diligentemente i nostri nomi prima che ci spingessero lungo un sentiero che porta al torrente Gorzente. Quindici gruppi, settantacinque ragazzi. Io ero nel dodicesimo. Due palle nel petto, il colpo di grazia alla nuca sparato da un caporale dall’accento toscano. Altri ventidue giustiziati nei dintorni. Trenta catturati sul monte Figne, quaranta rastrellati tra Campo Ligure e Rossiglione. Quattordici trucidati a Passo Mezzano. Sette caduti in un’imboscata tra Cravasco e i monti di Praglia. E poi i contadini abbattuti nelle cascine. I casolari bruciati, la Benedicta demolita dall’esplosivo. Si era alla vigilia di Pasqua e il Tobbio grondava sangue.”
Così, le canzoni si intramezzano alle parole e Il silenzio che si sente, è il nulla che resta dopo il massacro: Siamo campi calpestati dagli anfibi dei soldati, qui dove non nasce più niente.
Sotterrato in una fossa comune il giovane spiega di come si continuò a fucilare partigiani fino al 19 maggio, giorno della strage del passo del Turchino, valico appenninico sito tra il comune di Masone e il comune di Mele che collega Isola d’Asti a Genova Voltri attraverso Acqui Terme, e quindi Genova con la provincia di Alessandria e con Asti.
Vi morirono in trentotto, il più giovane aveva diciassette anni, il più vecchio ventidue. Tutti di Serravalle Scrivia, tutti amici, immortalati come una classe in gita in una fotografia, con gli occhi pieni di sole e di vita. Erano i ribelli della Banda Odino. Tra di loro, Marco Guareschi, nome di battaglia Massimo. Arrivato da Genova a Montei, sulle colline di Serravalle con la famiglia, padre professore universitario, madre laureata in chimica. Quelli che non furono uccisi subito vennero rinchiusi dentro carri bestiame pronti a partire verso i campi di concentramento. In questo gruppo era Guareschi. A lui Carlotto fa dire: “Abbiamo fatto tutto il nostro dovere, il nostro onore è completamente salvo. Se volessimo potremmo anche cantare; ora facciano di noi quello che vogliono. Del resto i tedeschi stessi non hanno nascosto di avere più stima di noi che dei fascisti”. Guareschi, brigata autonoma Alessandria, studente universitario di fisica, partigiano dal 5 marzo 1944, come riporta il sito di Anpi Serravalle Scrivia, morì di stenti il 12 aprile 1945 a Mauthausen, quindici giorni prima della liberazione del campo da parte dell’esercito americano.
Un altro eccidio irrompe nella narrazione, di nuovo vittime innocenti. A Tavolicci, paese di ottanta anime, contadini, boscaioli, povera gente, vive Aldina. “Ci hanno obbligato a uscire dalle case. I dieci capifamiglia li hanno legati e raggruppati in disparte, mentre le donne, gli anziani e noi bambini siamo stati rinchiusi nella casa di Domenico Baccellini, nella stanza sopra alla stalla. Dalle finestre vedevamo i militi ammassare su un paio di carri quello che riuscivano a portare via dalle case. Poi uno di loro si è coperto il volto con un fazzoletto, è entrato nella stanza dove stavamo e ha iniziato a sparare. Sono morta così. A otto anni.”
Racconti che restituiscono verità sconcertanti. Tavolicci è la “strage più raccapricciante e numericamente più consistente della Romagna: sessantaquattro persone, di cui diciannove sotto i dieci anni, vengono trucidate dal IV Battaglione di volontari di polizia italo-tedesca” si legge sul sito dell’Istituto Storico di Forlì-Cesena. Un eccidio che è rimasto vergognosamente impunito: un luogo isolato difficilmente raggiungibile, scarsa la documentazione, la memoria tramandata con difficoltà che non raggiunse le aule di tribunale.
Chi sopravvisse alla Benedicta si unì nella divisione Mingo, attiva nell’Ovadese e in altre formazioni della Val Borbera e dell’Appennino alessandrino. Poi, dappertutto, tanti giovani, sempre più numerosi scesero dai monti a liberare le città intonando canzoni. Quelle composte davanti a un fuoco, tra le macerie di un edificio diroccato, in un nascondiglio tra i boschi, da chi non era riuscito a darvi voce.
“Canteremo noi per voi nelle vie e nelle piazze delle nostre belle città quando le avremo liberate”, si sentiva dappertutto. Una promessa che è stata mantenuta, se ancora oggi nuove canzoni si scrivono, si incidono dischi a tema, si eseguono concerti nei teatri, nelle piazze. Nelle quindici tracce dell’album l’eccidio della Benedicta è il tassello centrale dentro un grande atlante delle stragi in cui la violenza cieca della dittatura nazifascista condusse a morte e distruzione.
“Insieme a Massimo Carlotto e Maurizio Camardi abbiamo voluto sottolineare anche l’aspetto europeo della Resistenza ancora così poco espresso nei lavori artistici dedicati alla Resistenza”, dice Archetti Maestri.
Si ricorda dunque anche la Guerra di Spagna con Viva la Quinta Brigada, traduzione del testo e musica di Christy Moore. La Quinta Brigata, ovvero El Quinto regimiento: “compagnia di eroi, da tutto il mondo arrivò per terra e per mare una Brigata Internazionale. Per difendere il popolo spagnolo, per fermare la dittatura” al grido di No pasarán.
La strage di Tavolicci, evocata anche dai disegni dell’artista Tinin (Agostino) Mantegazza che la definisce “una storia terribile”. Quella al passo del Turchino, quella di Monte Sole.
Ma non mancano le vicende delle partigiane e dei partigiani che in vario modo diedero il loro contributo, ricostruiti attraverso le testimonianze. Come quella di Martina Scarsi, che salì alla Benedicta dopo il rastrellamento e l’esplosione per verificare cosa fosse accaduto ai giovani compagni. “Cominciammo ad alzare una di quelle sette pietre e a scoprire il volto di quei sette caduti. Il primo fu per noi sconosciuto. Il secondo anche. Finalmente con la terza pietra scoprimmo che si trattava del povero Romeo. Lo dissotterrammo. Aveva il volto intatto, pareva sereno. Spostammo poi le altre e trovammo anche Aldo Canepa. Continuammo a piangere in silenzio. Andammo al grande cascinale La Benedicta. Trovammo in terra tutto attorno, carte da gioco, spazzolini, dentifrici, ogni cosa e tanta legna bruciata”. (Isral, Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria, Carlo Gilardenghi).
Oppure evocati dalle parole di Carlotto. Tra questi, Spartaco Fontanot, nato a Monfalcone (Gorizia), emigrato in Francia dove presto abbandonò studi e lavoro per dedicarsi alla lotta agli occupanti nazisti. Membro di una cellula di partigiani, partecipò a numerose azioni, tra cui l’attacco a un deposito tedesco di Nanterre, l’assalto a una colonna di autocarri della Wehrmacht a Parigi, l’attacco di una caserma a Rueil. Collaborava con il poeta armeno Missak Manouchian, operaio alla Citroën, che aveva fondato un sindacato di lavoratori stranieri: italiani, francesi, armeni, ungheresi, polacchi, rumeni. Furono condannati a morte e fucilati tutti insieme al Fort Valerién il 21 febbraio 1944. Ai giudici che chiesero a Fontanot perché combatteva per un paese che non era il suo, rispose che la patria, per un operaio, è dove lavora.
C’è la voce della cantautrice astigiana Lalli che restituisce l’orrore, lo sguardo attonito e inerte di chi osserva e nulla può. Come gli aironi che vedono i deportati stipati nei vagoni. Anche la natura, la fauna che popola certi ecosistemi, sembra essere toccata dallo strazio degli eventi narrati.
“Lalli ha una voce da sogno, poetica, emozionante – dice Archetti Maestri – Chi meglio di lei poteva dar voce e suono a un affresco così fortemente legato alla natura? Natura e ambiente che, tra l’altro, hanno da sempre caratterizzato la nostra opera (il primo album del ’94 si intitolava La diserzione degli animali del circo, ma potremmo citare anche La solitudine dell’ape). Ultimamente, immerso nelle poesie della Szymborska o della Candiani, mi sono convinto che il dramma della nostra epoca legato ai disastri climatici sia nato proprio dalla rottura tra l’uomo e l’ambiente, dallo sfruttamento folle delle risorse, ma soprattutto dalla sottovalutazione del rapporto che ci lega profondamente al mondo animale e vegetale. La poesia che ci regala stimoli e risposte”.
C’è chi è salito sulle aride montagne cercando libertà tra rupe e rupe, frase di Dalle belle città, canto nato tra le alture liguri, inno della III Brigata garibaldina Liguria, scaturito dall’ingegno e dalla passione dei partigiani Emilio Casalini “Cini” per il testo e Luciano Rossi “Lanfranco” per la musica. Canzone di riscatto, qui riproposta in forma acustica, voce e chitarra, così come la si intonava tra i monti.
La piccola Elide, invece, danza a Monte Sole, superstite di un’altra terribile strage, la più efferata compiuta dalle SS naziste in Europa, nei territori della provincia bolognese: Monte Sole, Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno, il 29 settembre 1944. Sopravvissuta in mezzo alle macerie di corpi fatti a pezzi.
Partigiani sempre è, dunque, la condizione necessaria, perché il fascismo è sempre dietro l’angolo e serve vigilare. Mantenere viva la memoria, anche cantando e suonando gli strumenti più a portata di mano: Disse un fascista ad un ribelle, voglio il tuo cuore per farti la pelle. Ma il partigiano al fascista sicuro, prese la pelle e ci fece un tamburo. La nostra chitarra ha un dolce suono, ma per i fascisti ha un lugubre tono.
Il poeta Nino Pedretti direbbe che non sono importanti le cerimonie, ma che si deve pensare ai vivi. Perché bisogna essere partigiani sempre e ovunque, contro i fascismi, per la libertà, per i diritti, la giustizia sociale. E la memoria deve essere coltivata, nutrita, insegnata. Bisogna pensare ai vivi, che sappiano fare del nome inciso su una lapide la storia di una vita da cantare e raccontare, piena dell’orgoglio e della fierezza dei partigiani e delle partigiane che hanno combattuto, che sono morti, che sono stati imprigionati, che hanno sfilato lungo le vie delle città liberate.
Ecco che raccontare, ma soprattutto cantare sembra essere lo strumento che più di altri si presta a mantenere viva una memoria. Cantare canzoni partigiane ma anche comporne di nuove.
“Credo che tutta la magia stia nell’incontro tra tutto ciò che è storia e memoria – dice Archetti Maestri – come cantiamo nell’ultima canzone dell’album – Storie e memorie che si intrecciano e ci regalano qualcosa che, fuor di retorica, possa rinnovare l’emozione rispetto a questi temi. Forse abbiamo bisogno di uscire da una narrazione spesso celebrativa, spesso simile a se stessa e talvolta retorica, che invece di coinvolgere le nuove generazioni le allontana. Così come si allontanano molti di quelli che sostengono questa nostra storia così tanto tragica, quanto meravigliosa. È la radice dell’antifascismo da proteggere, sta a noi fare di tutto per mantenerla viva e renderla sempre più luminosa. Anche scrivendo e cantando nuove storie, nuove canzoni”.
Opera complessa, Partigiani Sempre!, in cui la narrazione inchioda a un ascolto e a una partecipazione attiva, che non lascia indenni. Conduce lo spettatore a provare l’angoscia che tanti giovani patirono, ma anche ad ammirare il coraggio che ancora oggi rende le loro gesta esemplari. Alla narrazione e alle canzoni si aggiungono poi, nell’articolato booklet, fotografie d’epoca e illustrazioni. Quelle di Tinin Mantegazza e quelle di Ivano A. Antonazzo, a ricordarci, queste ultime che, perché la memoria resti vivida e continui a parlare, occorre una manutenzione costante. Perché mai si dimentichi. Che la Resistenza è il sangue che ha fecondato le nostre terre. Che attorno a questo principio le comunità devono stringersi. Oggi, ancora di più.
La storia e la memoria, sorelle in altalena, con gli occhi spalancati, schiena contro schiena.
Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
https://www.nota.it/wp-content/uploads/2023/06/221020-PARTIGIANI_SEMPRE-DSC_8420ED-scaled-e1689322718208.jpg16961696Linda Fierrohttps://www.nota.it/wp-content/uploads/2017/07/Nota-header-1.pngLinda Fierro2024-02-01 09:27:302024-02-05 11:05:43Canti partigiani e stragi nazifasciste. Racconto e musica nella Spoon River della Resistenza
Pubblicato nell’autunno del 2022 da Arts et Musique, il progetto dei cantati e ricercatori di residenza francese, la romana Germana Mastropasqua e lo svizzero Xavier Rebut, è entrato quest’anno nel novero dell’etichetta friulana Nota Records.
L’Italia della metà degli anni Cinquanta è una creatura mutante che s’è adattata a sopravvivere respirando la polvere delle macerie e a sentire nell’odore della cordite e del sangue secco una prova minima d’essere ancora vivi solo perché i sensi reagiscono e non giudicano più. l’Italia della metà degli anni Cinquanta ha preso la rincorsa e sta saltando il fossone dove scorre una maledetta tradizione di miseria fatta di terra da zappare e sassi da togliere dal campo e pane da portare a casa e mille figli che nascono e muoiono come fossero agnelli e conigli e carne che si mangia solo nel giorno di festa. L’Italia della metà degli anni Cinquanta è l’Italia che si piazza sui mercati internazionali con i suoi prodotti che sono competitivi perché alle fabbriche del Nord arrivano mani e braccia e sudore da tutta la penisola povera e stufa di morire, che a stufarsi di morire ci vuol poco quando la guerra è finita da poco.
L’Italia della metà degli anni Cinquanta è regina dell’economia mondiale, a dircelo oggi quasi non ci si crede, e la politica non è mai in sincrono, piuttosto si nutre della carcassa come fa ancora oggi e infatti quel guizzo di crescita potente i politici con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni lo chiamarono “Miracolo economico”. E cos’è il miracolo se non una cosa che accade oltre la spiegazione razionale, oltre la regola, in abbondanza di pani e pesci e acqua che si fa vino. Invece non c’era la meraviglia del miracolo dietro quel Boom ma mutui accesi all’esistenza e la maledizione di stringere i denti e passare dalle stagioni ai turni scanditi dalla macchina timbratrice. Siamo di certo diventati migliori con le case e le automobili e i frigoriferi e l’aspettativa di vita che s’è alzata e la scuola e le attese leggendo le riviste davanti agli ambulatori e la moda e i giovani e le casalinghe e i dischi e il quiz e sognare ancora. Sognare era davvero quello che faceva la differenza rispetto al presente (qui sotto una foto di repertorio di quel periodo). Ma abbiamo pagato un prezzo alto, troppo salato quel conto arrivato al tavolo quando ormai il miracolo era solo un corteo carnascialesco in cui si ritualizza la vita e si gestisce la colpa collettiva.
Ecco, in quell’aria di miracoli si muovevano giovanissimi a Torino dei personaggi che non sapevano stare nei panni loro, che sentivano un’inquietudine che era un topo che non smetteva di corrergli lungo la spina o un tarlo. Già, un tarlo. Avevano l’urgenza di trovare un linguaggio perché la convivenza con quello che già c’era non era stata felice e li avevano allontanati dall’associazionismo, dagli oratori, dalle congreghe, dalle redazioni dei giornaletti all’ombra delle curie: forse la risposta era già nel vento e l’aria si sentiva fresca addosso ad averci vent’anni e a camminare a primavera sotto i portici torinesi, quasi a scordarsi la madre di tutte le fabbriche che aveva dato un colore diverso da sempre all’alba e aveva piazzato una madonnina da venerare sopra al Monte dei Cappuccini perché il capitalismo è la religione più pregata al mondo. E in quell’urgenza di trovare linguaggi e parole nascono i Cantacronache, i padri certi della canzone d’autore in Italia, della canzone che veicola appoggiati agli accordi contenuti e storie. In ordine forse di apparizione e dimenticando senza colpa qualcuno arrivano Sergio Liberovicie Michele Straniero, Fausto Amodei e Margot, e poi ancora Emilio Jona, Italo Calvino, Gianni Rodari, Umberto Eco, Gianni De Maria. Vogliono fare canzoni che non siano la paccottiglia di consumo, all’epoca di dischi se ne vendevano a camionate perché non c’era la concorrenza di altri media che non fosse la carta stampata. Certo, c’erano la radio e la televisione e il cinema ma il disco te lo sentivi quando volevi tu e te lo portavi in giro con il mangiadischi e creavi una tua comunità di ascoltatori presi dalla santeria del consumo e pronti a dondolare le teste a tempo sentendo l’ultimo successo sanremese.
Fanno i loro dischi quelli dei Cantacronache, e i libri e gli spettacoli e sono una pentola di idee e contenuti che ancora sobbolle. Non hanno mai avuto in sorte d’essere conosciuti a quella figura mitica della narrazione dei pubblicitari ed affini che passa sotto la dicitura “il grande pubblico” e che vuol dire soldi. Non stanno nella memoria condivisa di questo Paese ed è un oltraggio alla storia e alla cultura. Emilio Jona ancora scrive e lucidamente si misura con il mondo oggi, Fausto Amodei non smette di mettere in musica e guardare con l’occhio suo disincantato in cui il sorriso taglia come lama di falcetto. E poi ci sono gli altri, che sono andati avanti, come c’era Michele Straniero. Un’anima irrequieta e mai placata la sua, così la immagini passando dai libri agli articoli di giornale e ancora dalle canzoni agli spettacoli teatrali. Con quel misurarsi costante, già nei titoli di tutti i suoi dischi, con la religione e la religiosità, con dio e con la natura umana e carnale delle cose. Michele Straniero muore in esordio di millennio, dopo essere stato investito su un viale torinese. Lascia un patrimonio ciclopico di cose scritte e anche solo immaginate. Lo lascia come hanno lasciato tutto i Cantacronache, che ancora aspettano che i loro archivi trovino una degna collocazione oltre gli scatoloni ammassati nelle stanze chiuse di qualche istituzione. E poi lascia un archivio domestico fatto di appunti e diari e pagine in cui annota le sue passeggiate. E poesie scritte in foglietti sparsi, che lui, Michele, era prima di tutto un poeta. Il nipote Giovanni Straniero custodisce quelle memorie per anni e un giorno si decide a proporle a Michele Gazich e Federico Sirianni (in alto in una foto di Flavio Dal Molin), due figli di quella razza spuria generata proprio dai Cantacronache, due portatori sani di musica e parole in forma di magia.
Nasce così Domani si vive e si muore, un disco in cui le poesie inedite di Straniero trovano nuova forza in guisa di canzoni. Gazich e Sirianni sono entrati in punta di piedi in quelle stanze dove si respira appunto una certa sospensione, un’inquietudine che si muove tra la timidezza delle emozioni espresse e la necessaria veemenza della passione civile. Tornano tutti i temi di Straniero in questo disco e vengono ridisegnati e cambiano casa e se, come scrive Borges, un romanzo diventa altro a ogni lettura, ora questo disco è perfettamente Michele Straniero e altro. E ci cantano in tanti e con diritto d’esserci in questo disco. In ordine alfabetico ci sono Fausto Amodei, Gualtiero Bertelli, Maurizio Bettelli, Andrea Del Favero, Giovanna Famulari, Marco “Tibu” Lamberti, Alessio Lega, Paolo Lucà, Giovanna Marini, Gian Gilberto Monti, Moni Ovadia, Giovanni Straniero.
Un disco delicato, fatto di rispetto e condivisione, suonato e cantato come si deve e come ci piace. E poi le voci di Michele e Federico che sono trama e ordito di un racconto delicato, sempre in punta di piedi, sempre ospiti di parole d’altri ma pronti a dar misura della propria forza valorizzatrice. Un lavoro pazzesco, (forse) inutile per questo tempo che consuma tutto in fretta, un lavoro di anima e voce. Tre voci a ben guardare, due dei protagonisti di questa avventura e la terza il violino, anche lui canta e anche lui prende i versi e li impasta all’emozione. Ad aprire e chiudere due brani originali scritti da Gazich e Sirianni con la forza compendiaria di mettere in due canzoni tutte le emozioni che misurarsi con quella figura gigantesca comporta. E lo vedi Michele Straniero, lo vedi proprio muoversi tra i viali nella città che produce e consuma, soprattutto le vite consuma. L’etichetta è ‘Nota’ di Valter Colle, un antropologo, un editore, un cuoco che sa tenere insieme le anime sfuggenti di mille narratori con una pentola piena di gnocchi e una bottiglia di vino. C’è solo una cosa migliore di questo disco ed è il clima in cui è stato realizzato. Un disco che regala la certezza e di questi tempi non è poco perché “domani si vive e si muore”.
https://www.nota.it/wp-content/uploads/2023/09/Gazich-e-Sirianni-Foto-Flavio-Dal-Molin-scaled.jpg25602560Linda Fierrohttps://www.nota.it/wp-content/uploads/2017/07/Nota-header-1.pngLinda Fierro2023-10-20 09:07:432024-02-05 11:05:55Michele Gazich e Federico Sirianni – Domani si vive e si muore
Dai Cantacronache alla “Danzacronaca”: otto inediti di Michele L. Straniero, e non
solo
Qualche tempo fa, Giovanni, nipote di Michele L. Straniero, ha pensato di condividere testi e poesie inedite dello zio con Michele Gazich e Federico Sirianni. A questo felice incontro hanno fatto sponda le edizioni Nota pubblicando il 29 settembre un album e una serie di scritti che riannodano il filo della storia riportando l’attenzione sul ruolo dei Cantacronache. Il nuovo album integra quel lavoro cantautoriale attento alla giustizia sociale con versi che attingono ai sentimenti più intimi, con registri sia ironici, sia commoventi. Federico Sirianni ha già realizzato cinque album: l’ultimo, “Maqroll”, era nella cinquina finalista alla Targa Tenco 2022 nella categoria “Miglior album in assoluto dell’anno”. Michele Gazich di album ne ha registrati una cinquantina, undici a suo nome, ultimo in ordine di tempo “Argon”. Per Gazich questo nuovo lavoro è anche un modo di “tornare” a Torino, la città in cui ha vissuto per alcuni anni frequentando il FolkClub. Ad unirli è, fra l’altro, una delicata capacità nel tenere in bilico le parti cantate e con personali forme di “recitar cantando”, nei concerti, certo, ma anche nei dischi. Un’attenzione per le diverse forme della parola che in questa occasione rendono indispensabile e ricca di sollecitazioni una doppia intervista.
Quando e come avete incontrato e poi approfondito il lavoro di Michele Straniero e dei Cantacronache?
Federico Sirianni – Quando, ancora studente di Lettere a Genova, conobbi Andrea Liberovici, figlio di Sergio Liberovici che con Michele Straniero diede vita ai Cantacronache e di Margot Galante Garrone, anch’essa protagonista di quella straordinaria storia. E poi, quando mi sono trasferito a Torino, era impossibile non confrontarsi con quel modo che precorse la grande epoca della canzone d’autore contemporanea italiana.
Michele Gazich – Nell’estate del 1990 da Brescia, dove ero nato, mi trasferii a Torino: ci sarei rimasto fino al 1997. Avevo 21 anni, mi ero iscritto a Lettere Classiche e volevo terminare gli studi al Conservatorio con un maestro che sapevo che mi avrebbe insegnato a suonare un po’ più dignitosamente di quelli che mi avevano istruito fino ad allora. In breve, tuttavia, io, che allora ero decisamente un ragazzo di provincia, fui inghiottito dalla vita culturale e dai locali della città. Ogni sera suonavo da qualche parte, ero affamato di musica, di poesia, di incontri e sempre assetato di vino… Musica e poesia mi pareva che fiorissero ovunque, che spuntassero in qualunque strada o piola (“osteria”, in piemontese. N.d.A.) nella Torino di allora! Presi coscienza del FolkClub, fondato due anni prima dal musicologo Franco Lucà e da Michele Straniero: ho vaghi ricordi di avere incrociato Michele Straniero, a distanza. Certamente pochi anni dopo, a ridosso della sua scomparsa, avviai una frequentazione costante con il nipote Giovanni che, formato dall’illustre zio, mi istruì su ogni cosa che ancora non sapevo. Già allora, ricordo, mi mostrò gli scritti di Michele Straniero che lui conservava…
Cos’hai imparato da quelle canzoni del 1958-1962?
Michele Gazich – A dire la verità, in musica e parole. Non avrei mai scritto una canzone come Guerra Civile (“Dio sopravvive nei dettagli / Nelle crepe dei centri commerciali”) se non avessi incontrato i Cantacronache e, in particolare, Michele Straniero, che sapeva piegare l’immaginario religioso, di cui ogni italiano – anche suo malgrado – è intriso, ad un messaggio squisitamente politico.
In che modo dialogano le canzoni e le poesie di Michele Straniero?
Federico Sirianni – La canzone e la poesia sono forme di scrittura diverse anche se la canzone può contenere poesia e la poesia essere molto musicale. Alcuni dei testi di Straniero che abbiamo affrontato non sembravano essere stati scritti per farne canzoni, altri sì. Sui primi è stato dunque necessario metterci un po’ le mani per adattarli alla forma canzone.
Volete raccontarci la collaborazione con Giovanni Straniero, con l’archivio personale di Michele Straniero e l’incontro fra voi?
Michele Gazich – Giovanni, come raccontavo sopra, è un caro amico da decenni. Da tempo mi aveva mostrato il materiale dell’archivio dello zio e mi aveva proposto di musicare qualcosa di questi testi. Ma io ho esitato a lungo. Avevo una sorta di timore reverenziale nei confronti di Michele Straniero… Poi è entrato in scena Federico che ha subito affrontato con estrema efficacia alcuni di questi testi. Ciò mi è stato di sprone, mi sono detto: “Allora ce la posso fare anch’io!” E così è stato… Con Federico abbiamo lavorato in totale armonia, come non mi era mai avvenuto in tanti anni di carriera e con tante collaborazioni alle spalle. Ognuno è intervenuto nel lavoro dell’altro con semplicità e con la gioia – perché tale è stata – di lavorare insieme. Gioia che abbiamo portato in studio di registrazione, dove abbiamo registrato con divertimento e concentrazione (non avrei mai pensato di mettere queste due parole assieme…) con il grande tecnico del suono Fabrizio “Cit” Chiapello presso gli studi Transeuropa e con il
mio storico collaboratore Marco “Tibu” Lamberti (suoniamo assieme dal lontano 2006).
Federico Sirianni – Anche per me l’incontro con Michele è stato illuminante e credo e spero si possano trovare in futuro altre forme di collaborazione perché insieme abbiamo lavorato davvero in grande armonia. E non era scontato.
Perché per l’album avete scelto proprio quegli otto testi inediti e in che misura sono rappresentativi delle poesie di Michele Straniero?
Federico Sirianni – Sono quelli che, nel materiale fornitoci da Giovanni, ci hanno colpito maggiormente e, allo stesso tempo, potevano dare una sorta di unità concettuale al disco: è un Michele Straniero più personale che politico, che dichiara apertamente il suo malessere in un mondo e in una società nella quale fa fatica a vivere.
Che rapporto ha la vostra forma canzone con quella dei Cantacronache?
Federico Sirianni – In queste canzoni abbiamo lavorato su due piani: sentirci liberi di trasferire le nostre personali esperienze musicali senza dunque seguire pedissequamente la modalità “Cantacronache”, ma aderire a quel mondo rimanendo, a livello di arrangiamenti, estremamente essenziali e acustici.
Potete raccontarci la genesi del brano che apre il disco “Ho incontrato Michele Straniero” e “Danzacronaca”?
Michele Gazich – L’intento dei due brani cornice è innanzitutto, per così dire, didattico. “Ho incontrato Michele Straniero” a livello testuale è una porta spalancata per entrare nel mondo di Straniero. Il testo è spiritosamente costruito grazie ad una costellazione di citazioni da canzoni di Michele. Per chi le conosce, è una strizzata d’occhio continua… chi non le conosce magari sarà portato ad ascoltare capolavori come “La Madonna della Fiat”, “Adeadato”, “L’Intellettuale”.
“Danzacronaca” fin dal titolo spinge ad avvicinare il mondo dei “Cantacronache”: è una sorta di danza macabra in cui intellettuali, scrittori, cantautori danzano nell’aldilà con il loro amico Straniero. Umberto Eco, Danilo Dolci, Italo Calvino, Fabrizi De André, Giorgio Gaber, Franco Lucà: tutti sono rappresentati con pochi tratti attraverso una quartina di versi. Questa gran parata conclusiva è stata anche l’occasione per far cantare per noi amici come Giovanna Famulari, Alessio Lega, Giangilberto Monti e Paolo Lucà.
Come sono nate le collaborazioni per le canzoni del vostro disco? Ce le volete raccontare?
Michele Gazich – Con totale spontaneità. Sono (quasi) tutte persone che hanno avuto davvero a che fare con Straniero. Michele ha avuto un ruolo nella loro vita e carriera. Ci tenevano ad esserci, non è stato necessario supplicarli e così, quasi per miracolo, dall’oggi al domani ci siamo trovati nel disco ospiti come Moni Ovadia, Gualtiero Bertelli, Giovanna Marini, Fausto Amodei, ma anche Giovanna Famulari, Maurizio Bettelli, Andrea Del Favero, Alessio Lega, Giangilberto Monti e Paolo Lucà. Inoltre, sono tutti
amici personali di Giovanni, Federico o miei, da anni. Gualtiero, per esempio, ha collaborato ad altri miei dischi ed io ai suoi (proprio un anno fa Bertelli e Bettelli furono ospiti del concerto di Gazich e Lamberti al Ghetto di Venezia ndr); con Moni sarò in tour il prossimo novembre e così via.
Federico Sirianni – C’è stato molto entusiasmo da parte di tutti gli ospiti intervenuti, segno di un grande rispetto per l’opera di Michele Straniero. Alessio Lega è un eccellente studioso dell’opera dei Cantacronache e Giangilberto Monti ha conosciuto Gaber proprio grazie all’intercessione di Straniero, con cui si frequentava a Milano.
Come e dove porterete in concerto questo lavoro?
Federico Sirianni – Spero in più luoghi possibile. Straniero è un “totem” fra gli addetti ai lavori della musica folk e d’autore, ma poco conosciuto dalla massa. Sappiamo benissimo che si tratta di un progetto di nicchia, ma le canzoni sono molto belle e i testi, nonostante siano scritti nella prima metà degli anni Sessanta, risultano di un’attualità straordinaria. Speriamo che questo nostro lavoro, che abbiamo affrontato con grande cura e rispetto, possa portare un pizzico di divulgazione in più dell’opera di Michele Straniero.
Se oggi potessi rivolgere una domanda a Michele Straniero, cosa gli chiederesti?
Federico Sirianni – Sarebbero molte per cui gli chiederei di cenare insieme al ristorante cinese, che lui amava molto e, davanti a degli ottimi ravioli alla griglia e a un paio di birre Tsing-Lao, più che altro lo ascolterei.
Volete raccontarci anche gli altri tuoi progetti e collaborazioni musicali presenti e futuri?
Michele Gazich – C’è soprattutto un progetto a cui tengo molto: dal 2008 lavoro ad un insieme di testi e musiche denominato “La Gerusalemme Interiore – Una Cantata Ebraica”. Come Giona, Fuoco nero su Fuoco bianco, Il latte nero dell’alba, Dia de Shabat, Maltamé: sono alcune delle tante canzoni che ho scritto nel corso del tempo strettamente legate a tematiche ebraiche. Altre ne ho scritte di recente e sono totalmente inedite. Costituiscono, nel loro complesso, un corpus di più di trenta composizioni in parole e musica. Cantata Ebraica: accostamento inedito di nome e aggettivo, callida iunctura! Quando si pensa alla cantata viene in mente innanzitutto Bach, che ne scrisse più di cento e meravigliose, in larga prevalenza di argomento sacro. Ho pensato di far indossare alle mie canzoni i vestiti delle cantate bachiane: si ascolteranno infatti voci soliste, duetti, armonizzazioni corali, recitativi. Ho voluto ebraicizzare un genere cristiano, protestante. Ne restano le caratteristiche formali, ma i contenuti sono anche, e talora squisitamente, ebraici. La mia Cantata si muove dunque su di un crinale ebraico-cristiano.
Nel corso del 2023 ci sono state delle anteprime di questo materiale: a Venezia in occasione del Giorno della Memoria e presso la sede di Civiltà Cattolica a Roma lo scorso aprile. La Cantata sarà presentata nella sua forma integrale per la prima volta a Bergamo nell’ambito del Festival “Molte Fedi Sotto Lo Stesso Cielo” il prossimo 4 dicembre, a Torino al FolkClub il 27 gennaio e presso l’Università di Gerusalemme a fine giugno 2024.
Federico Sirianni – Attualmente porto in giro uno spettacolo dedicato a Giorgio Gaber insieme ai musicisti storici di Gaber, Gianni Martini e Claudio de Mattei, con il patrocinio della Fondazione Gaber. E poi il lavoro di scrittura sui testi di Straniero mi ha aperto dei canali e ho ripreso a scrivere anche canzoni mie, per cui è possibile che in tempi non lontanissimi, possa uscire un mio nuovo album.
Michele Gazich | Federico Sirianni – Domani si vive e si muore (Nota, 2023)
Dalla foto in bianco e nero della copertina, con un basco d’altri tempi, Michele Straniero ti guarda dritto negli occhi, mentre si aggiusta gli occhiali: ascoltato l’album, questo gesto appare un invito a saper affinare lo sguardo pur rimanendo nel comune campo di osservazione. Ad introdurre il lavoro, nel libretto, sono quattro testi puntuali “Ma cosa vuoi che sia una canzone?” di Fausto Pellegrini (“Canzoni diverse”) su canzoni con una dignità artistica legata alla rappresentazione della vita quotidiana; di Giovanni Straniero (“Abbeverarsi alla fonte”) che ricorda come Michele Straniero cominciò a scrivere prima poesie e poi testi per canzoni e come scrivesse in qualunque posto e in qualsiasi momento, su un’agenda telefonica o sui fazzolettini di carta; di Michele Gazich (“Abbeverarsi alla fonte”) e Federico Sirianni (“La fatica e il pericolo”). Se, oltre sessant’anni fa, i testi e le musiche dei Cantacronache hanno saputo richiamare l’attenzione di chi compone canzoni sulle emergenze sociali e sui rapporti di potere, leggere ora i versi di Michele Straniero diventa un’occasione per ascoltarne la dimensione più intima e affettiva là dove da forma al linguaggio delle emozioni intrecciando le “cronache” politica di allora (che non hanno smesso di parlare all’oggi). È il caso della strofa della quarta canzone in cui “il poeta raccoglie i gatti e la luna / Ti cambia la frase e l’idea / Ti dice ‘sei solo un gatto randagio’ / E la paura va via”. Non è marginale, nell’esplicitare i rapporti fra personale e politico, fare i conti con la paura e scovare lo sguardo e il linguaggio capace di esorcizzarla, perlomeno quando si ha la consapevolezza del legame che unisce potere, controllo e paura. E’ significativo il titolo di quest’album, verso della poesia omonima che, dopo aver cantato la condizione randagia, esplicita “E non ho paura di sapere che / Domani si vive e si muore”. Registrato da Fabrizio “Cit” Chiapello nello studio Transeuropa Recording di Torino, l’album coinvolge Marco “Tibu” Lamberti (basso, chitarra, banjo) in sei brani e vede ospiti Fausto Amodei, Gualtiero Bertelli, Maurizio Bettelli, Andrea Del Favero, Giovanna Famulari, Alessio Lega, Paolo Lucà, Giovanna Marini, Giangilberto Monti, Moni Ovadia. Fra i testi inediti di Michele L. Straniero, Gazich e Sirianni ne hanno selezionato otto che ci restituiscono in forma di canzoni, ognuna con una propria specifica qualità affettiva, un ventaglio di timbri diversi. Le note del bel libretto di 34 pagine che accompagna il cd, oltre che per le musiche, riportano i loro nomi anche per i testi, indicazione di un intervento, per quanto contenuto, di aggiustamento dei versi alle metriche di canzoni che si muovono liberamente rispetto ai tratti musicali che caratterizzavano i Cantacronache. La seconda canzone, “Lettera ai genitori”, affila subito la lama introspettiva: “Io non ci riesco a fare felici quelli che amo”. Se questa triste ammissione viene inizialmente accolta dalla cornice tersa del dialogo voce-chitarra acustica, uno dei fili rossi dell’album, la paletta sonora a disposizione sa far esploderne tutto il tragico portato, in particolare col piano elettrico Rhodes e il basso elettrico a sostenere l’urlo di dolore che intreccia voce e violino. L’archetto diventa protagonista nei due brani successivi, lirico controcanto a “Le case, le strade, la gente” che con la voce di Moni Ovadia ci ricorda che “il viaggio non è terminato”. Poi, a metà album, ecco un esplicito, ben pennellato rimando ai Cantacronache con Giovanna Marini al canto, Maurizio Bettelli all’armonica a bocca e Andrea Del Favero all’organetto che danno corpo a “Da un cielo umano” in cui “la colomba della pace / ripassi un giorno o l’altro da queste parti” sperando che nel frattempo “le poche verità non vadano perdute / in un incendio doloso”. Prima di avviarsi alla conclusione, “Il corridoio del Nautilus” sottrae la chitarra al ventaglio dei timbri per impastare in un unico tronco sonoro viola, violino e pianoforte acustico con le voci di Gazich e Sirianni per esplorare con dolore e tenerezza la “mossa complicata / quella d’essere qui”. La canzone che apre e quella che chiude l’album sono state scritte da Gazich e Sirianni stabilendo un legame tra la dimensione esplicitamente politica e quella più intima e affettiva che attraversa le poesie inedite Michele Straniero. “Ho incontrato Michele Straniero” è l’occasione per ascoltare la voce (parlata) di Giovanni Straniero che ci offre un toccante incipit: “Sono di questi posti / Ma nessuno mi crede”. La canzone sembra restituire il profondo processo di trasformazione offerto a Gazich e Sirianni dal lavoro sui testi di Michele Straniero, ma il dialogo che da forma ai versi non è riferito ai due autori. Ospite al canto e protagonista della canzone è Gualtiero Bertelli cui Michele Straniero rivolge un esplicito invito a percorrere da cantastorie una strada “ancora lunga” per realizzare il desiderio di vedere “l’Italia libera dai fascisti”. A chiudere l’album, dopo la bellissima ed essenziale “L’amore è sempre il punto”, è “Danzacronaca”: una energetica danza macabra che immagina una compagnia di amici – Umberto Eco, Danilo Dolci, Italo Calvino, Fabrizio De André, Giorgio Gaber e Franco Lucà – ad accogliere nell’aldilà Michele Straniero.
https://www.nota.it/wp-content/uploads/2023/09/Gazich-e-Sirianni-Foto-Flavio-Dal-Molin-scaled.jpg25602560Linda Fierrohttps://www.nota.it/wp-content/uploads/2017/07/Nota-header-1.pngLinda Fierro2023-09-19 12:06:352023-09-19 12:07:39Gazich: “Con Michele Straniero mi abbevero alla fonte del cantautorato”
Partigiani Sempre! racconta delle stragi ad opera dei fascisti come quella di Tavolicci, in provincia di Forlì, avvenuta il 22 Luglio 1944 dove vennero uccisi 64 abitanti tra cui molti bambini, e quella a cui gli Yo Yo Mundi hanno dedicato questo disco, il massacro della Benedicta, sull’Appennino Ligure a 20 Km da Alessandria, in cui la Guardia Nazionale il 7 Aprile del 1944 sterminò 75 partigiani, ma ne morirono altrettanti nei giorni successivi.
Nella serata dell ’8 luglio al Teatro antico di Tindari si è inaugurata nel sito archeologico greco la Rassegna 2023 del Festival “Tradizioni “ come meglio non si sarebbe potuto: un eccelso Umberto Orsini ha portato in scena, con la regia di Elio De Capitani, il meraviglioso testo di Oscar Wilde – composto dopo i due anni pesantissimi di condanna ai lavori forzati per omosessualità, intercorsa nel 1895, nel carcere di Reading, nel Berkshire – con una superba Francesca Breschi, allieva della bravissima Giovanna Marini, che ha degnamente sostituito la sua mentore nella esecuzione canora del testo in inglese, cinque originali ballate mariniane.